Si chiamavano Horrea Piperataria e furono costruiti dall’imperatore Domiziano, ultimo esponente della famiglia dei Flavi, tra l’81 e il 96 dopo Cristo. L’esistenza di questi grandiosi magazzini per le spezie è documentata da una fonte successiva, il Cronografo del 354, che ricorda la loro esistenza proprio in relazione alla gigantesca, e più tarda, Basilica di Massenzio al Foro Romano, costruita all’inizio del IV secolo.
Recentemente è stato inaugurato un nuovo percorso multimediale che racconta le intricate vicende dei magazzini per le spezie orientali, da prima della loro costruzione fino alla loro demolizione e oltre. La stratificazione indagata dagli archeologi ha rivelato importanti fasi storiche che dalla metà del I secolo giungono fino ai nostri giorni.
Una prima serie di indagini si svolse all’inizio del Novecento, quando l’archeologa Maria Barosso (1879-1960), allieva del celebre Giacomo Boni (1859-1925), inventore del metodo stratigrafico, individuò i resti dei magazzini domizianei sotto la Basilica di Massenzio. Le strutture, tuttavia, furono ricoperte poco dopo la scoperta, dal momento che al Regime Fascista premeva in modo particolare il completamento di Via dei Fori Imperiali. L’area, contigua alla sede stradale, fu quindi coperta da una soletta di cemento e, in un certo senso, dimenticata. Dopo una parentesi negli anni ’80, nel 2019 sono riprese le attività di scavo sotto la direzione del Prof. Domenico Palombi coadiuvato da una squadra di archeologi della Sapienza Università di Roma. In un contesto culturale diverso, pur sempre animato dall’approccio stratigrafico che aveva guidato le ricerche della Barosso, per sei campagne di scavo, concluse nel 2023, si è indagata la stratificazione, arrivando non solo ad individuare le strutture degli Horrea Piperataria scoperti un secolo prima prima, ma allargando le indagini all’esterno dei magazzini e, quindi, al “prima” e al “dopo” la loro costruzione.
Quella soletta di cemento è ancora intatta e l’esplorazione degli Horrea avviene proprio infilandosi al di sotto di essa, in uno spazio angusto compreso tra il pavimento dell’edificio flavio e quello della soprastante Basilica di Massenzio. In altre parole, oggi possiamo esplorare l’area camminando attraverso le fondazioni dell’edificio massenziano: un’esperienza davvero suggestiva.
E come raramente accade dopo uno scavo archeologico, l’area, nel volgere di un anno, è stata musealizzata e aperta al pubblico, segno che i rapporti tra il PArCo del Colosseo, l’Università e la ditta incaricata di costruire l’animazione multimediale, la Katatexilus, sono stati animati da una proficua sinergia.
Il respiro diacronico della narrazione è forse l’aspetto più innovativo della valorizzazione offerta ai visitatori, mancando invece totalmente traccia della cultura materiale. Il racconto multimediale si innesta su quella famosa soletta di cemento gettata dal Regime Fascista a copertura dell’edificio antico portato in luce solo pochi anni prima e procede, quindi, a ritroso nel tempo, seguendo lo stesso ordine nel quale l’archeologo sfoglia il terreno quando scava, riportando cioè alla luce gli strati nell’ordine inverso alla loro deposizione originaria. Il più antico giace sotto a quello più recente.
Per usare un metafora tipicamente archeologica, la soletta di cemento rappresenta la “rinascita” moderna della Basilica di Massenzio come teatro per concerti, una delle riconversioni in chiave pubblica che sotto il Regime erano particolarmente in voga. L’animazione virtuale “rompe”, quindi, il basso soffitto dell’area archeologica introducendo visioni di cielo e degli interni del magnifico edificio massenziano, attraverso ricostruzioni virtuali di assoluto pregio grafico e architettonico.
La voce narrante spiega che la Basilica tardo antica si imposta, demolendoli, sugli Horrea Piperataria, i quali, a loro volta, si impiantano sui resti della città neroniana, distrutta dall’incendio del 64 e ricostruita rapidamente come una gigantesca residenza imperiale diffusa, che occupava, per la prima volta e scandalosamente, sia i luoghi di proprietà imperiale che gli spazi tradizionalmente pubblici, come il Foro Romano.
E se la grande Storia delle fonti letterarie ci dice poco e male di Nerone – il pazzo, il piromane – la realtà archeologica ci porta fin dentro alle pieghe del cantiere antico, individuando, per esempio, un sistema di fondazioni a pilastro, alcune delle quali completate, altre rimaste incompiute. Segno, secondo gli archeologi, che la morte violenta dell’ultimo esponente della dinastia giulio-claudia ha interrotto in più punti i progetti urbanistici imperiali.
Nerone, a sua volta, aveva inciso il tessuto urbanistico risalente all’imperatore Claudio, suo predecessore. A questa epoca gli archeologi assegnano i resti di un edificio possente, gettato contro la pendice della Velia e animato da nicchie semicircolari, il tipico dispositivo architettonico messo in atto per contrastare le spinte di un colle.
E la Velia è il fantasma, oggi quasi impercettibile, ma che occorre materializzare, se non altro nella nostra mente, perché la sua esistenza ha orientato le scelte costruttive del passato, fino alla costruzione della Basilica di Massenzio. Il fatto che oggi il grandioso edificio ci appaia come “sospeso” è il risultato del taglio della collina attuato dal Regime per aprire il passaggio alla via dei Fori Imperiali.
Il racconto multimediale fa muovere i visitatori, per tappe, all’interno degli Horrea. Non è facilissimo percepirne il perimetro e i resti, anche per l’invadenza visiva delle strutture metalliche di sicurezza. Ma d’altronde, camminare sospesi nel vuoto prodotto dalla rimozione della stratificazione non è facile ed è quindi interessante valutare l’insieme delle scelte espositive, anche in funzione della fruibilità del percorso di visita. La voce narrante accompagna, fisicamente ed emotivamente, ogni spostamento, portando un pò di umanità e di vita nel garbuglio dei muri altrimenti muti che si offrono alla vista. Uno spettacolo, beninteso, ma che non tutti, forse, nel poco tempo a disposizione per il percorso multimediale, sarebbero in grado di cogliere.
La visita prosegue all’esterno della Basilica di Massenzio. Qui, due pannelli spiegano, in modo forse troppo sintetico, le tracce visibili sulla gigantesca parete che si staglia lungo il Vicus ad Carinas. Confessiamo di essere dei nostalgici delle letture stratigrafiche che abbiamo imparato ad amare al Museo della Cripta di Balbo, ora chiuso.
L’occhio, però, può apprezzare, in una sovrapposizione verticale, le possenti fondazioni neroniane in travertino e blocchi di tufo di recupero, sovrastate dalle fondazioni del muro in mattoni degli Horrea Piperataria, poi rasato e usato come fondazione per la Basilica di Massenzio. Ulteriori tracce segnalano gli usi post antichi dell’area, evidentemente piena di terra, per edifici effimeri quali granai e rustici, indicatori di un uso agricolo dell’area. D’altronde già dal Rinascimento il Foro Romano era divenuto il celebre “Campo Vaccino”.
Lasciata l’area riservata ai fruitori della visita guidata a pagamento (obbligatoria per esplorare gli Horrea), si riprende il Vicus ad Carinas e si giunge fino ai resti del Templum Pacis – la piazza pubblica costruita dai Flavi dopo la Rivolta Giudaica – passando per l’Arcus Latronis. In pochi metri si compie un altro viaggio nello spazio e nel tempo in un paesaggio dai connotati tardo antichi e medievali, ancora in stretto rapporto con i ruderi del passato imperiale.
La novità, il trattamento dei dati, il racconto diacronico e la spettacolarità delle relazioni tra le varie fasi architettoniche in cui si snoda la storia del Foro Romano, meritano sicuramente l’investimento di tempo e di denaro. E ancor di più il viaggio vale per lo straordinario, e certamente non sconosciuto, stretto rapporto che la Roma dei Flavi intratteneva con i popoli del Nord Africa, della Siria e dell’India, tutti luoghi attraversati dai traffici commerciali di età imperiale e popolati, nel tempo, di stazioni di sosta, porti e punti di snodo. Vi farà effetto udire il nome di città come Gaza, il porto dal quale le merci, raccolte in India, partivano alla volta di Portus e quindi agli Horrea Piperataria. Luoghi oggi martoriati ma che un tempo facevano parte di un sistema complesso nel quale lo scambio, culturale e commerciale, era la chiave della convivenza.
Ignorarlo è forse l’aspetto più grave del nostro presente. Frequentare la nuova area archeologica degli Horrea Piperataria con la consapevolezza che per trecento anni hanno costituito il punto di arrivo di cose e persone, esito di rapporti proficui tra Oriente e Occidente, può essere un buon modo per far fruttare questo nostro patrimonio culturale, che non smette di sorprenderci ma, soprattutto, di ricordarci da dove veniamo.