Premesso che la presidente del consiglio Giorgia Meloni s’impegna assai per confermare quel che diceva Margareth Thatcher: “In politica, se vuoi che qualcosa venga detto, chiedilo a un uomo; se vuoi che qualcosa venga fatto, chiedilo a una donna”, sul caso Almasri – il pezzo grosso libico ricercato a livello internazionale e preso a Torino dagli italiani che lo hanno riaccompagnato a casa – qualche carenza, tra il fare e il dire, però, l’ha manifestata. Tanto da “impressionare” perfino uno che, pure, di cose ne ha sentite e viste molte dalle parti dei Palazzi, il generale Umberto Rapetto la cui memoria è andata al predecessore Silvio Berlusconi all’epoca del famoso avviso di garanzia recapitatogli a Napoli durante il G7. Allora,“non c’erano i social”, riconosce Rapetto mentre nota che:” “i collaboratori erano di differente qualità…”. Compresi quelli di alto livello costituzionale coinvolti, se, come pare, da qualche ministro ci si sarebbe potuto aspettare che qualcosa dicesse. se non altro per far onore alla distinzione “di genere” thatcheriana.
Il prudente Arnaldo Forlani – il quale si trovò a gestire da Palazzo Chigi la grana dell’elenco degli iscritti alla P2 che gli fu “consegnato da due magistrati di Milano. Uno si chiamava Turone….l’altro mi pare….Colombo” – sosteneva che il presidente del consiglio non ha poteri reali, ma semplicemente di coordinamento, “tranne che per un aspetto, quello della esternazione”. Di questo, nella vicenda gelliana, usò col parsimonioso temporeggiamento utile a far concludere il lavoro istruttorio della magistratura. Poi, quasi burocraticamente, inviò l’elenco alle Camere che lo stamparono e misero a disposizione dei parlamentari e dei giornalisti. I quali, peraltro, già sapevano, commentavano e giudicavano. Anche perché, qui da noi, in materia vale sempre la convinzione di un antico principe dell’informazione politica, Vittorio Orefice che nel libro “La Velina” (sottotitolo: Giuro di dire tutta la verità , nient’altro che la verità) ha testimoniato: “Voglio sfatare una leggenda: i segreti di Stato NON ESISTONO” (maiuscole usate da lui).
Ciò non toglie che certe vicende, specie quando coinvolgono i mondi della “ragion di stato”, si colorano spesso di giallo. Sarà per questo che Giulio Andreotti, il quale sapeva scegliersi i collaboratori e soprattutto conosceva i meandri più misteriosi della complicatissima macchina dello Stato – come pure i percorsi riservati per raggiungere i luoghi del potere vero, dalla Casa Bianca al Cremlino, dalle Segrete vaticane alla tenda di Gheddafi – quando, vedendolo dal barbiere della Camera con un libro nella mano che sporgeva dall’asciugamani gli chiesero cosa leggesse, rispose: “Un giallo. Mi serve per separare un lavoro dall’altro. E, poi, si imparano tante cose utili per chi fa politica!”.
E di gialli è costeggiata la cronaca politico-giudiziario-giornalistica d’Italia. A cominciare da quello del cadavere della giovane Wilma Montesi, trovato il 9 aprile 1953 sulla spiaggia di Capocotta vicino Roma. Della morte fu incolpato Piero Piccioni che dovette aspettare quattro anni prima di vedersi assolto dal Tribunale di Venezia, dopo che, a Roma, un giudice assurto ad improvvisa notorietà lo aveva anche incarcerato. Nel frattempo (effetto solo collaterale?), il padre di Piero, Attilio, ministro e in predicato per succedere a De Gasperi, ebbe distrutta la vita politica.
Ma per restare in tema con il torturatore di cui oggi si parla e in relazione al modo in cui una vicenda, per certi versi paragonabile, fu trattata dal governo (e non solo), la memoria va al rocambolesco rimpatrio in Germania del colonnello delle SS Herbert Kappler, il cui nome è legato all’eccidio delle Fosse Ardeatine. A Ferragosto del 1977, il criminale evase dal carcere militare del Celio. La notizia arrivò per telefono al presidente del consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti, in vacanza a Merano, mentre stava leggendo non un giallo ma qualcosa di simile quanto a materia intricata: la “Relazione sulla giungla retributiva statale”. Il ministro della Difesa, che si chiamava Vito Lattanzio, pure lui avvisato, dalla vicina Fregene tornò subito in sede e trasmise a tuti la versione che gli avevano presentato: chiuso in una valigia, calata dalla finestra dell’ospedale con un verricello e riposta dalla moglie nel bagagliaio di una macchina, Kappler passò così, senza altolà, i cancelli e rimpatriò in Germania.
Il presidente del consiglio, raccomandata la calma, chiese un rapporto preciso e telefonò al capo del governo tedesco, Helmuth Schmidt. Poi, come da suo programma feriale, andò all’ippodromo. Tre giorni dopo, le autorità di Bonn rifiutarono l’estradizione di Kappler richiesta dall’Italia. Le opposizioni protestarono e la maggioranza risolse il caso spostando Lattanzio dalla Difesa ai Trasporti.
Nel diario di Andreotti “Governare con la crisi” (pag. 248), desta qualche curiosità il fatto che l’estensore, raccontando i fatti, fa seguire alla lapidaria frase “Alla Camera vennero presentate quattro mozioni di sfiducia, tutte respinte”, questa notazione: ”Con Berlinguer ebbi contati per l’annunciato raduno dibattito della Sinistra extraparlamentare”. Strana collocazione.
“A pensar male del prossimo si fa peccato, ma si indovina” si dice attribuendo la massima allo stesso Andreotti, il quale però ne precisò l’origine curiale: “L’ascoltai dal cardinal Marchetti Selvaggiani, quando ero universitario”.
Lirio Abbate, siciliano, è autore di esclusive inchieste su corruzione e mafie...
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