Trump o non Trump, con annessi e connessi, le migrazioni ci son sempre state e continueranno nel mondo cambiando popoli, stati e continenti, oltre allo stare insieme degli abitanti, a partire dalla dalla cittadinanza. Quella che, nella Capitale ad esempio, sembrano aver già ottenuto i gabbiani assetati che bevono dai “nasoni” come qualsiasi civis romanus. “Non so dove abbiano il nido, ove trovino pace”, scriveva di loro il poeta Vincenzo Cardarelli quando, pure lui migrante dall’etrusca Tarquinia, la incontrò ai tavoli dei caffè di via Veneto
Nonostante sarebbe la più bella del mondo (secondo Roberto Benigni, che è tante cose ma non un giurista), la Costituzione italiana non definisce la “cittadinanza”, sebbene fin dall’art. 3 parli di cittadini, però al maschile, con l’aggiunta “uomini e donne”all’art.48. Essa fu approvata settantotto anni fa, quando politically correct e woke erano di là da venire e i politici si rivolgevano al popolo, alla gente, tutt’al più ad amici e compagni, senza doversi intortare in spericolate acrobazie di articoli e preposizioni articolate.
Mode e sciccherie a parte, sulla “cittadinanza” i costituenti, dunque, preferirono non addentrarsi nella declaratoria di principi e requisiti. Anzi, respinsero l’iniziale intenzione espressa in proposito dalla cosiddetta commissione Forti. Così, la parola si ritrova scritta una sola volta, all’art.22 e unicamente a circoscrivere il divieto della sua privazione “per motivi politici”.
Desumerne le caratteristiche “legali” e cioè il complesso dei diritti e dei doveri discendenti dalla appartenenza ad uno Stato, richiede, quindi, l’interpretazione del quadro dei principi e della organizzazione dell’ordinamento sanciti nel resto della Carta che, proprio perché del 1947, non poteva prevedere il futuro intensificarsi dei movimenti migratori. In pratica, della presenza, nello Stato, di individui che, pur qui operando, lavorando, risiedendo stabilmente e rispettando le leggi, sarebbero soggetti di una cittadinanza “reale” che, però, non è quella “legale” degli altri con i quali convivono.
E’ dovuto, perciò, intervenire il parlamento con la legge n.91 del 1992 nella quale prevale la visione etnica della questione, cioè i legami di sangue rispetto a quelli tra la persona e il territorio.
Ius soli, ius scholae, altro? Qui ci si misurerà, almeno sul piano legale, perché poi la piena integrazione effettiva patirà step che metteranno a prova l’effettiva capacità della comunità e dei singoli di dimostrarsi coerenti con lo spirito della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la quale, all’art. 15, stabilisce il diritto di ogni individuo “ad una cittadinanza”.
La situazione economico-sociale e la visione assente nel dopoguerra di un’Italia che, da porto di partenza sarebbe diventata approdo di importanti flussi migratori, fecero prevalere sulla statuizione costituzionale di principi riguardanti l’acquisto della cittadinanza, quella della privazione.
Oggi, il dibattito in materia si fa più vivo per l’aumento dei candidabili all’acquisto della cittadinanza che, se non è un diritto, non può escludersi possa considerarsi interesse legittimo a determinate condizioni, le quali debbano essere ora adeguate dalla legge non solo in rapporto all’effettivo inserimento del richiedente nella comunità nazionale, ma all’interesse di questa a rafforzare la sua struttura demografica, economica e civile con nuovi “cittadini” a pieno titolo: se non ci fossero in Italia cinque milioni di immigrati, la popolazione sarebbe di 54 e non 59 milioni di abitanti, con ricadute negative sul pil e sul benessere di larga parte degli autoctoni sempre più in età da pensione.
Il problema dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti necessita di approccio laico che, rifuggendo da aspetti moralistici troppo spesso issati a bandiera in controversie politiche più generali, faccia ritrovare intorno all’interesse nazionale ed europeo per una geopolitica non conflittuale e il rafforzamento della base produttiva domestica.
Senza millenarismi catastrofici o mire elettoralistiche, nella consapevolezza che le migrazioni di grandi masse non hanno mai interrotto il progresso delle civiltà. Da quando la promessa di Jahvé al popolo ebraico della terra tra il Tigri e l’Eufrate determinò la diversa collocazione geografica di dodici popoli, quanti le dodici tribù d’Israele, all’esodo dall’Egitto in centinaia di migliaia per costituire il nuovo Stato con le sue regole.
Già milletrecento anni prima di Cristo. Migrazioni per ragioni economiche, cioè per ricercare e costruire migliori condizioni di vita comunitaria, nella codificazione delle quali i romani furono maestri già prima dell’era cristiana con l’attribuzione della qualità di civis a chi non era capitolino e la Constitutio antoniniana di Antonino Caracalla che, nel 212 d.C., concedeva la civitas romana agli abitanti dell’impero.
Percorsi virtuosi, spesso dolorosi. Dall’Africa e dall’Oriente, oggi, verso l’Europa. Solo ieri, le grandi migrazioni nelle Americhe o in Australia e, all’interno, il richiamo al nord dei meridionali che hanno fatto ricchi i comuni del settentrione, nei cui uffici anagrafe trovarono iscrizione. Di recente, i cervelli in fuga dalla penisola.
Sergio Endrigo cantò spiagge di conchiglie morte e sopra, nel cielo azzurro, gabbiani “telecomandati” che volano assetati verso il miraggio dell’acqua, forse, dei “nasoni” romani e, fuor metafora, la sua conclusione vale per troppi ancora: “Che fatica essere uomini!”.
Foto di Andrea Lombani: Gabbiano romano che beve al “nasone”