“Se l’Italia vuole che i suoi concittadini residenti in Libia vivano in pace, deve pagare il prezzo”. Così, Muammar El Gheddafi che, cacciata nel 1969 la monarchia di Re Idriss, imperò per quarantadue anni su quella parte del nord Africa una volta colonia italiana. Regola diplomatico-mercantile rimasta in vigore anche dopo il suo assassinio nel 2011, se, nel Parlamento italiano, il 10 ottobre di cinque anni dopo, un ministro dell’Interno, Marco Minniti – definita “dannata e maledetta” l’industria del traffico di esseri umani “unica impresa che ha funzionato in Libia”- dichiarava, senza contestazioni, la necessità di presentare lì una “convenienza positiva alle popolazioni”. Poi, per evitare di non essere stato ben compreso, insisteva: “Una volta si sarebbe parlato di buona moneta che scaccia la cattiva moneta”. Non solo, ma estendeva l’applicazione della medesima regola al rapporto diretto coi sindaci di 14 città particolarmente importanti sul versante della regolarizzazione dei flussi migratori, come delle tribù cerniera al sud del paese. Dove arrivavano immigrati da altre parti dell’Africa.
Il patto triennale (poi confermato) che fu firmato dal presidente del consiglio italiano Gentiloni e dal premier libico al-Sarraj il 2 febbraio 2017, conteneva anche l’impegno a potenziare la Guardia Costiera per il salvataggio dei migranti e le attività di filtro e di trattenimento in Centri di “accoglienza”. Nei quali, le condizioni di vita erano considerate “inaccettabili per la comunità internazionale” (parole di Minniti) allora, mentre i governanti firmavano, come lo sono oggi. Forse, Almasri già c’era e magari trafficava pure con i biglietti per andare indisturbato negli stadi di mezza Europa. Perché quello del calcio parrebbe una sorta di status symbol – retaggio coloniale? – delle classi dirigenti di Cirenaica e Tripolitania. Benefit, dal livello spettatori a quello di giocatori, se si è figlio di Gheddafi
Ai tempi del quale, e sempre in ottica di offerte “convenienti” per i dirimpettai del Mediterraneo, Berlusconi nel 2008 aveva siglato il protocollo chiamato Trattato di Bengasi per interventi economici e operativi di vario tipo da parte italiana, più un finanziamento di cinque miliardi di dollari in venti anni per “progetti infrastrutturali di base”. Prezzo, questo, per ottenere non solo la rinuncia alle ricorrenti pretese libiche di “risarcimento danni” del più recente periodo coloniale (ma il Colonnello chiedeva riparazioni addirittura per quello giolittiano del 1911 e quando da Roma gli fu ricordato un lontano accordo transattivo di cinque miliardi di lire italiane, rispose che quanto concordato prima di lui non lo interessava) ed alle vertenze riguardanti l’attività di imprese e cittadini italiani residenti, ma, in particolare, per impegnare la Libia in iniziative contro il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina in Italia.
Un altro intervento, ma stavolta “conveniente”, in senso lato, per la nostra economia, c’era stato nel 1976 quando, in tempi di grave crisi petrolifera, la Lybian arab foreign bank entrò con un esborso di 415 milioni di dollari nel capitale della Fiat.
Anche se Gianni Agnelli dicono considerasse allora i libici “banchieri della migliore scuola ginevrina”, l’imprevedibilità dei ras nazionali e locali e, soprattutto, la frastagliata struttura politica in cui le tribù e i rispettivi capi non erano – e non sono – molto adusi agli scrupoli, hanno sempre imposto nelle trattative tra Stati un di più di attenzione e di realismo.
Ciò, per gli italiani ancora operanti o residenti, per le risorse energetiche di cui siamo tradizionalmente estrattori e importatori, per il ruolo di porta d’ingresso e partenza dei movimenti migratori verso le nostre coste. Avendo sperimentato la rapidità con cui accordi o affidamenti possono venir smentiti ed usati come arma carica talora attivata contro di noi, seppur di riflesso: i missili su Lampedusa del 1986, monito agli USA, ad esempio, e la caduta su Ustica, il 27 giugno 1980, del DC 9 colpito per errore da lancio invece destinato a un velivolo sul quale si sarebbe trovato Gheddafi, secondo le informazioni allora ricevute dal presidente del consiglio e dal ministro dell’interno italiani, Cossiga e Amato).
In sostanza, dunque, materia da maneggiare con cura, in particolare dai governi e dal parlamento il quale ha una sede specifica, il Copasir, per discuterne, senza dannosi e non verecondi clamori potenzialmente rischiosi per il Paese e, Dio non voglia, per i singoli cittadini. In una situazione senza punti fermi istituzionali e con poteri interni tanto diffusi quanto forti e incontrollabili.
Altro che bagarre e le aule di Montecitorio e di Palazzo Madama trasformate in studi di talk show televisivi con inutile ridondanza di aggettivi totalmente delegittimanti e siparietti da parate di attempate majorettes.
Spettacolo, puramente spettacolo come quel giorno di febbraio 2006, quando il ministro Calderoli si fece intervistare in tv indossando una maglietta della salute con impresse vignette contro Maometto. Credeva di far spettacolo, di apparire simpatico, ma a Bengasi non condivisero e assaltarono il consolato italiano. Quattordici morti.
Gheddafi, prima prese le difese di Calderoli, poi, in tv lo chiamò “fascista, retrogrado e colonialista”. Approfittando pure per prendersi gioco dell’Italia alla quale un prezzo va sempre chiesto “per garantire che non occuperà la Libia una seconda volta”. Quasi vent’anni dopo, fosse ancora al potere, il Colonnello avrebbe forse girato la frase:”per garantire all’Italia di non essere occupata da quanti, libici o transitanti, intendono cambiare sponda”.
Muammar El Gheddafi aveva studiato” in accademia britannica”, dicono, e tra i capi arabi di allora sembrava il più occidentale di tutti anche se – per precauzione – viveva in una tenda “all’interno dell’interno di una caserma”.
La primavera araba che lo depose non ha fatto nascere capi più affidabili e noi siamo sulla riva di fronte. Ad una distanza possibile anche per vecchi gommoni sovraccarichi di disperati tanto speranzosi quanto irritati avendoci visto, in tv, spendere per il pasto di un cane quanto a loro deve bastare per troppi giorni.
Foto di Andrea Lombani