Fu la pistola di Alì Agca a mandare per la prima volta un papa in ospedale. Ricovero coatto il 13 maggio 1981 per Giovanni Paolo II, dopo l’attentato in piazza San Pietro. Poi, altre volte, ma volontariamente, tanto da rinominare il Policlinico Gemelli di Roma “Terzo Vaticano”. Ora, però, che la Villa Pontificia di Castel Gandolfo è stata trasformata in museo, l’ospedale cattolico è cresciuto di ruolo, diventando secondo e li è ricoverato in questi giorni papa Francesco.
Prima di loro, Wojtyla e Bergoglio, era inimmaginabile che un pontefice, vicario del Dio che da e toglie la vita, potesse essere ricoverato per curarsi e, il medesimo Dio non voglia, morire tra i comuni mortali.
Fu nell’agosto 1978 che la cosa cominciò a far sorgere qualche dubbio, dato che la natura umana di Paolo VI, colto da infarto nel suo appartamento, avrebbe potuto reagire facendogli evitare la morte se sostenuta dalle terapie d’emergenza proprie di una rianimazione ospedaliera. Ma era possibile, in quegli anni, portare il pontefice in una camera d’ospedale come qualsiasi altro paziente? La tradizione e il protocollo lo impedirono.
Cosicchè, da qualche parte nelle sacre stanze – dove si crede alla Provvidenza – qualcuno è stato sentito riferirsi allo sparo del turco Alì con le parole di sant’Agostino “O felix culpa…”. Perché da allora Wojtyla andò al Gemelli dieci volte ancora e Francesco è la quarta volta che viene curato al decimo piano del policlinico al Trionfale. Auguri.
L’età non risparmia i papi dagli acciacchi che prima, di qualunque natura fossero, venivano curati in casa. Anche quando ci fu bisogno, per Paolo VI nel 1967, di un intervento chirurgico e nonostante si fossero offerti di accogliere il papa diversi ospedali in Italia e all’estero (in particolare il cardinale Spellman insisteva per il ricovero negli Stati Uniti). Venne deciso, infatti, di allestire alla bene e meglio una camera operatoria alla Terza Loggia. La scelta cadde sulla grande stanza dove Pio XII faceva preparare l’albero di natale per i parenti e Giovanni XXIII vi aveva fatto “appoggiare” l’apparecchio radiografico per i suoi disturbi di stomaco, ma prima se ne era servito per vedere i documentari sui lanci spaziali fornitigli dall’Ambasciata USA.
Lì, papa Montini fu operato di prostata. Malattia di cui soffriva anche il predecessore Giovanni che “chiamava allegramente il mio servizio idrico tutto ciò che riguardava l’apparato urinario”, rivelò il segretario Capovilla al vaticanista Benny Lai.
L’intervento, durato 45 minuti, fu eseguito da un’equipe costituita appositamente dal professor Pietro Valdoni, il chirurgo che aveva operato il segretario del PCI, Palmiro Togliatti, dopo l’attentato da questi subìto fuori Montecitorio.
Giovanni Paolo I, il veneto papa Luciani, non ebbe il tempo di chiamare un medico quando, il 28 settembre 1978, dopo solo 30 giorni di pontificato, morì all’improvviso nel suo letto. Normalmente, da persona comune, ma il fascino morboso della notte, i misteri di quelle stanze che segregavano usque ad finem chiunque le abitasse, con l’aggiunta della decisione di impedire l’autopsia per rispetto delle “sacre ”spoglie, hanno eccitato – e forse eccitano ancora – molte fantasie per il piacere dei lettori e soprattutto degli editori.
Anche se Ratzinger, Benedetto XVI, dopo le dimissioni rifiutò il ricovero ed ebbe a disposizione una attrezzatura medica dedicata nel Monastero dove si era ritirato, si può dire che ci volle l’arrivo dei papi stranieri, Wojtyla e Bergoglio, per riportare fra gli umani la figura umana, compreso il suo corpo, del vescovo di Roma, cui l’Annuario pontificio attribuiva il titolo di “Vicario di Gesù Cristo”. Dal 2020 è stato però lì precisato trattarsi di “titolo storico” ed al papa non è più proibito
Foto di Andrea Lombani