Le recenti notizie emerse nell’indagine palermitana, condotta dal Procuratore De Lucia, hanno riportato alla ribalta delle cronache, un aspetto particolarmente spinoso che riguarda i boss di mafia detenuti in carcere: “i contatti con l’esterno per continuare a comandare i picciotti”, attività sottolineata anche dal noto detto: “Megghiu cumannari ca futtiri”.
La questione, che adesso, grazie alle nuove tecnologie ha raggiunto possibilità un tempo impensabili, come partecipare a summit in video call da remoto, ha spinto anche i capi di cosa nostra a passare dai pizzini a Signal ed all’utilizzo di costosi criptofonini, necessari per tentare di contrastare le intercettazioni.
In effetti la questione dei telefonini in carcere è attuale da più di venti anni, ovvero da quando i telefonini e la loro rete, hanno raggiunto una buona capillarità e miniaturizzazione degli apparati, rispetto ai primi dispositivi, simili a “mattoni”, utilizzati sulle iniziali reti ETACS.
Concettualmente il problema potrebbe essere affrontato con sistemi efficaci, che, a prescindere da più accurati controlli sui pacchi in ingresso, che un tempo occultavano “lime” nelle torte per tentare rocambolesche fughe, stile Conte di Montecristo, mentre oggi nascondono telefonini in doppi fondi di pentole, dovrebbero essere basati sempre sulla tecnologia che, così come crea opportunità, potrebbe anche contrastarle e distruggerle.
Del resto, il primo tentativo di inibire l’utilizzo di telefonini all’interno delle mura carcerarie, fu fatto nel 2004, quando il DAP del Ministero della Giustizia, fece una gara per lo studio e la realizzazione di un sistema di interdizione delle trasmissioni, da installare nei principali Istituti di Pena italiani.
La gara, che fu vinta, all’epoca, da una storica società italiana operante, anche a livello internazionale, nel settore della ricerca e sviluppo di tecnologie destinate alle attività di intelligence, dopo un paio di anni di “traccheggiamenti ministeriali”, nonostante fosse stato individuato anche il carcere di Civitavecchia, come luogo dove realizzare il primo impianto pilota, non fu, inspiegabilmente, mai assegnata.
Appare chiaro quindi che l’utente medio resti perlomeno perplesso di fronte alle polemiche sulla permeabilità delle carceri e il ripetuto “stracciarsi le vesti”, di alcuni commedianti politici, di fronte ad eventi che continuano a rendere attuale il problema.
Oggi gli strumenti per ottenere un controllo effettivo e selettivo delle trasmissioni telefoniche in una determinata area sono ampiamente disponibili ed hanno raggiunto livelli di raffinatezza adeguati. Naturalmente occorre la volontà di voler far cessare dette attività illegali e la disponibilità di fondi per realizzare gli impianti necessari, che nella realtà, grazie agli sviluppi tecnologici nel settore, potrebbero non essere così elevati rispetto anche a pochi anni fa, quando il problema poteva essere risolto, ad esempio, con l’istallazione di un apparato”, sicuramente costoso e per certi versi surdimensionato rispetto alle esigenze, chiamato “Imsi/Imei catcher, con specifiche funzioni di filtro, per evitare di oscurare completamente l’area, rispetto all’utilizzo banale di “apparati jammer”, che avrebbero impedito anche le comunicazioni lecite.
Senza volere fornire troppe spiegazioni tecniche, le attività di alcuni sistemi di intercettazione, con ridotte funzionalità e quindi con costi minori, usabili con la tecnica del “man in the middle”, sarebbero favorite da una caratteristica intrinseca di ogni smartphone, che di fatto li equipara a piccoli “tori in calore”: ogni apparato si accoppia alla cella più forte presente in zona, senza che siano necessarie altri orpelli che rendano più stimolante il rapporto.
Per rispondere tempestivamente al solito coro di disfattisti, più o meno interessati o semplicemente dei soliti polemici di professione, che, usufruendo di banali tecniche di disinformazione, utilizzano elementi fondamentalmente veri, per poi distorcere le conclusioni a vantaggio della propria tesi, diciamo subito che la generale carenza di fondi per la realizzazione di detti impianti è una “balla colossale”, perché senza voler ricorrere ai fondi dell’ormai onnipresente PNRR, che pure potrebbero essere utilizzati, perché la concretizzazione di un progetto di questo tipo, potrebbe interessare anche tanti altri paesi europei, è necessario ricordare che il FUG, Fondo Unico Giustizia, alimentato dai sequestri di somme liquide e titoli alla criminalità organizzata, lo scorso anno, fonti del Ministero della Giustizia, ammontava a circa 2,5 miliardi di euro di denaro liquido, sommati ad altri circa 2,5 miliardi di euro di titoli, polizze assicurative ed altri documenti finanziari, per cui invece di tenerli fermi per pagare, in percentuale, la struttura di gestione di Equitalia Giustizia, che li gestisce “sudando sette camicie”, potrebbero, in minima parte, essere utilizzati per aiutare la lotta alla criminalità organizzata, troppo spesso basata sulla disponibilità e dedizione di Magistrati, Operatori delle Forze dell’Ordine e Società di servizi cui servirebbe poter mettere in campo avanzate tecnologie di supporto.