Cosa direbbe Shakespeare se sapesse di dover cambiare il finale della sua opera più amata, Romeo e Giulietta, in quanto ritenuta in grado di indurre al suicidio?
E cosa direbbe Kipling se sapesse che la sua raccolta di storie per ragazzi, Il libro della giungla, è stata inserita nella lista della letteratura dai contenuti dannosi, per il suo aperto sostegno all’imperialismo britannico? E cosa direbbe Defoe se sapesse che nel suo romanzo, Robinson Crusoe, è possibile rilevare tratti di razzismo e riduzione in schiavitù del selvaggio Venerdì?
Che dire allora del capolavoro di Günter Grass, Il tamburo di latta, che racconta la storia di Oskar che si rifiuta di crescere e perciò rimane nano? E dei Promessi sposi vittime di stalking? E della Divina commedia coi suoi orridi peccatori? E della stessa Bibbia che non esclude i sacrifici propiziatori? E di Ulisse che, tra le altre furbate, ha privato il diversamente abile Polifemo dell’unico occhio che aveva.
Questi sono solo alcuni esempi – limitati all’ambito letterario – dei danni arrecati dalla cancel culture, quell’atteggiamento di rimozione dalle biblioteche delle opere ritenute offensive in quanto, a dire dei soliti falsi moralizzatori, conterrebbero espressioni che esaltano una cultura sessista, razzista, colonialista, imperialista, genocida, patriarcale, omofobica e misogina, come pure violenta e antimaschilista, non inclusiva e via dicendo.
In taluni casi si pretende di riscrivere la trama del racconto o di edulcorare i passaggi o i termini ritenuti discriminatori e offensivi come grasso, pazzo, brutto, nano, femmina, maschio, negro, ebreo, zingaro. In altri casi si chiede di modificare frasi come “le streghe sono donne” o “i vampiri sono uomini”. Chi più ne ha, più ne metta. C’è spazio per chiunque si senta offeso.
Intanto, il numero delle opere messe al bando dalle università Americane e del Regno Unito è cresciuto vertiginosamente per rispondere a questi nuovi “bisogni degli studenti e della società”, dietro i quali si cela una sorta di “puritanesimo americano” che si concretizza in una sostanziale revisione degli insegnamenti ritenuti “scomodi”, contenuti nei classici della letteratura e della storia.
In nome della cancel culture non dovremmo più studiare la storia dell’Impero Romano, la cui società comprendeva servi, liberti e padroni. Tantomeno dovremmo studiare la storia delle Americhe nei cui confronti questa tendenza, in nome di una ottusa damnatio memorie, ha assunto tratti estremisti e violenti quali l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, accanto a quelle di generali sudisti, politici e schiavisti, considerati simbolo dell’oppressore bianco e del passato coloniale dell’occidente.
La cancel culture è figlia di un triste e bieco revisionismo storico che rischia di snaturare la storia e tante opere letterarie, ignorando che esse rispecchiano il contesto culturale, politico e sociale in cui hanno vissuto gli autori e i protagonisti degli avvenimenti storici. Rispecchiano cioè il periodo storico e la società del tempo in cui furono scritte. Pertanto, non si può riscrivere la storia senza dissolverne il significato, senza correre il rischio di perdere l’insostituibile, profonda capacità di riconoscere i torti e le ragioni. In sintesi, il passato non va negato ma ricordato, analizzato e contestualizzato per evitare di ripeterne gli errori.
Contro la cancel culture, cioè contro questa tendenza a eliminare le tracce del passato, utilizzata soprattutto a fini politici, c’è la memoria.
“Non dimenticatelo voi che mi ascoltate”, fu l’invito rivolto, il 6 marzo 1953, dal futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini ai Senatori della Repubblica, nel corso della commemorazione della morte di Stalin avvenuta il giorno prima (Atti parlamentari. Senato della Repubblica. CMXLIX Seduta antimeridiana. Venerdì 6 marzo 1953, pp. 39136-39137).
“Signori, voi tutti ricorderete”, disse il Presidente Pertini, “le ore angosciose che abbiamo vissuto quando la valanga nazista si rovesciò sull’Unione Sovietica. Le armate naziste già scorgevano le torri del Cremlino e le vette del Caucaso. Ebbene, noi sentivamo che se, per dannata ipotesi, fosse crollata l’Unione Sovietica, con l’Unione Sovietica – non dimenticatelo voi che mi ascoltate – sarebbero crollate tutte le speranze di un trionfo della libertà sulla dittatura nazi-fascista… Allora comprendemmo che da Stalingrado aveva inizio la vittoria delle armi democratiche contro le armi della barbarie!”.
Quella vittoria costò al Popolo russo 28 milioni di morti, tra cui 18 milioni di civili.
Ma evidentemente lo hanno, lo abbiamo dimenticato tutti!