Non c’è un solo nome stavolta. In realtà ce ne sono molti di nomi, quelli di tanti piccoli eroi, da non dimenticare, da commemorare o almeno da menzionare al pari di quelli più grandi, e non lo sono, nelle pagine dei nostri libri di storia: sono i Martinitt, i prodi bambini del Risorgimento italiano, che però in troppo pochi ricordano.
Questi cuccioli d’uomo, coraggiosi ed indomiti, fungevano da staffette durante le Cinque giornate di Milano, ed anche dopo, per consegnare i messaggi provenienti dal Consiglio di guerra degli insorti, da una barricata all’altra, sfrecciando tra pallottole ed assalti.
La necessità dei ribelli di mantenere i contatti tra di loro in modo rapido e sicuro, aveva generato l’idea di utilizzare i Martinitt, ossia gli orfanelli di Milano, che aiutarono la resistenza durante la lotta degli irredentisti italiani contro gli Austriaci. Furono denominati “Martinitt” (piccoli martini) perché all’epoca venivano ospitati nell’oratorio cinquecentesco della chiesa di San Martino.
Non tutti ne conoscono la storia e la loro partecipazione al Risorgimento come araldi, come una sorta di posta ambulante, arruolati per la guerra nella loro qualità di bimbi abbandonati, che nessuno avrebbe pianto; dotati di una uniforme con giubba a coda e cappello basso, venivano reclutati per fare lo slalom tra le barricate (circa 1700 in tutta la Milano di allora, molto più piccola dell’odierna) e consegnare gli ordini del comitato di guerra ed i messaggi delle vedette.
Alcuni di loro, i più grandicelli, non solo erano messaggeri, ma spesso partecipavano anche ai combattimenti, soccorrevano i malati negli ospedali da campo, aiutavano le ambulanze a soccorrere i feriti tra spari di baionette, materassi vecchi e pietre, in un caos di vicoli e strade, tra cui i piccoli sapevano destreggiarsi velocemente. Ricordiamo che nel 1848 Milano era la capitale del Regno Lombardo-Veneto, a sua volta parte dell’Impero austriaco, ed era governata dall’ottuagenario generale Radetsky.
Quando non furono più necessari come messaggeri, i Martinitt furono concessi dall’oratorio al Municipio di Milano “onde servire di guide ai militari che debbano recarsi ai vari negozi per provvedersi di vettovaglie”. Ma quando l’insurrezione ricominciò, dopo il ritorno degli austriaci, questi poveri figli di ignoti, opportunamente selezionati allo scopo, tornarono a servire gli insorti.
L’importanza dei Martinitt nella liberazione dell’Italia non si limitò solo al suo inizio, alle Cinque Giornate di Milano, ma il loro sacrificio proseguì, soprattutto nell’insurrezione del 1866. Un cronista del periodo, Ottolini, scrisse che “essi sgattaiolavano in mezzo alla folla e alle barricate colla noncuranza della loro età e furono utilissimi”.
Ma al di là di ogni considerazione sul loro indubbio eroismo, direi raddoppiato in virtù della loro età, è d’uopo precisare che quando i Martinitt venivano spediti in missione, i loro datori di lavoro, nelle varie botteghe ed officine della città, non li giustificavano per la loro assenza e li decurtavano del loro salario (ricordiamo che all’epoca non esistevano leggi sullo sfruttamento minorile, che era considerato legale); tenendo conto che, in base al regolamento dell’orfanotrofio, soltanto un quarto della paga spettava all’orfano, mentre i tre quarti finivano nelle tasche dell’Istituto, il rettore spesso chiedeva al Governo provvisorio di far tornare gli orfani il più prima possibile al loro “normale” lavoro.
L’impegno dei piccoli eroi, il loro contributo alla causa risorgimentale, non fu solo quello di staffette: addirittura i bimbi più piccini, che restavano in istituto perché in troppo tenera età, venivano privati del loro unico, ripetiamo, unico, pasto giornaliero per tre giorni a settimana, ed il risparmio che ne risultava andava al comitato per i feriti di guerra. Quindi, mentre gli orfani più grandicelli facevano i soldatini, i più piccoli rinunciavano ai pasti, pativano la fame, certo non spontaneamente.
Assurdo, ma funzionava così. Eroi per caso o eroi “forzati”, comunque la si voglia mettere, questa storia andrebbe a maggior ragione ricordata con rispetto e presa ad esempio, non solo dal romantico punto di vista di un valore ardito e coraggioso, chissà poi quanto spontaneo, da parte di bambini derelitti, ma anche di una realtà fatta di infanzie negate. In orfanotrofio la disciplina era ferrea, certo si imparava un mestiere, ma non era tollerata la più lieve mancanza, vigeva un sacro rispetto per il cibo, pena varie punizioni, e bisognava avere il massimo rispetto per chiunque.
Dopo la liberazione, nel 1885 l’orfanotrofio maschile fu insignito di una medaglia per il contributo dei Martinitt all’indipendenza italiana, poi nel 1898 essi furono commemorati in occasione del cinquantennio delle cinque giornate di Milano. Ma non furono gli unici, per dovere ricordiamo anche gli orfani del collegio di San Pietro in Gessate, sempre ovviamente a Milano, che espletarono le stesse funzioni degli orfanelli di S. Martino.
Ad oggi, l’Istituto è ancora aperto, insieme alla sua versione femminile “Stelline” (la cui fondazione risale al 1753) ed al Pio albergo Trivulzio, e vantano un museo, un teatro ed una banda musicale. Tutt’ora si occupano dell’accoglienza e dell’istruzione, oltre che della formazione professionale, di minori in difficoltà, grazie a due servizi di pronto intervento, ospitando non solo orfani, ma anche minori tolti ai genitori ed affidati alla struttura dal Tribunale.
Tra i Martinitt divenuti celebri, nel corso del XX secolo, ricordiamo Angelo Rizzoli, fondatore dell’omonima e famosa casa editrice, e Leonardo Del Vecchio, fondatore dell’impero di Luxottica. Intanto dovremmo mantenere un pensiero ed un ricordo per tutti i Martinitt della storia, non solo italiana, non solo per tutti i militi ignoti, ma anche per tutti i piccoli figli di ignoti.