Come l’arcangelo Michele quando rinfodera la spada, l’Italia “ripudia” la guerra. Ripudia, non “rinuncia”, verbo proposto nell’originario progetto di Costituzione da Giuseppe Dossetti, democristiano e pacifista al punto che si opporrà alla adesione alla Nato, entrando in rotta di collisione con Alcide De Gasperi, si farà prete e, quasi non gli bastasse, finirà la vita da eremita.
La Commissione dei settantacinque presentò all’Assemblea costituente, che poi lo approvò, un testo nel quale veniva precisato il tipo di guerra che l’Italia ripudia e, cioè, quella che è “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Dossetti, peraltro, nella sua proposta aveva fatto riferimento anche agli eventi bellici “di conquista”, ma questa specificazione fu tolta perché, un pò “grottesca” per un paese con passato imperialista e coloniale, notò il presidente della Commissione, Meuccio Ruini, il quale, nella seduta del 24 marzo 1947, ritornò sulla parola “ripudiare” che – disse – comprendeva in se sia la rinuncia che la condanna della guerra.
Non completamente, però. Infatti, non venne approvato un emendamento del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani per sancire il divieto dell’uso delle armi “nell’ambito delle controversie internazionali” e la conseguente attuazione della “neutralità perpetua” dell’Italia.
Molti dei padri costituenti erano convinti che con l’istituzione di una Federazione di Stati si sarebbero potuti superare i nazionalismi, considerati causa dei conflitti: “la sovranità perfetta, nemico primo e massimo della pace”, secondo la definizione di Luigi Einaudi.
Previdero, perciò, la possibilità per lo Stato di limitare la propria sovranità in funzione di “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Di più, la Repubblica, al riguardo, “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
E’ l’indicazione obbligata per la strada delle intese internazionali e, in particolare, per la cessione di sovranità a quella che sarà la Comunità Economica Carbone e Acciaio prima, la CEE poi e, infine, l’Unione Europea. Implicitamente, però, perché il richiamo esplicito all’Europa ed alla creazione di un suo apposito ordinamento, pur proposto sia in sede di progetto di Costituzione, sia in Assemblea, non venne approvato, nonostante l’accorata perorazione del veneto Celeste Bastianetto: “Badate, onorevoli colleghi, dal punto di vista economico questa Europa non si scinde più e nemmeno dal punto di vista politico-militare. Se nella Carta potremo inserire la parola Europa, noi incastoneremmo in essa un gioello per la civiltà e per la pace”.
Più che il voler, però, poté la prudenza, se non la ragion di Stato. Eravamo stati da poco salvati dagli americani e dai loro alleati e il voler già prefigurare un’entità politica, economica e presumibilmente militare che superava i confini nazionali avrebbe potuto mettere in qualche difficoltà la gracile Italia uscita distrutta dalla guerra. E proprio rispetto a chi l’aveva aiutata.
Lo disse apertamente il presidente Ruini “In questo momento storico, un ordinamento internazionale può e deve andare oltre i confini d’Europa. Limitarci a tali confini non è opportuno di fronte ad altri continenti, come l’America, che desiderano partecipare all’organizzazione internazionale”.
Era la fine di marzo del 1947, e gli Stati Uniti non avevano ancora iniziato a fare i gendarmi del mondo, ma a Yalta, sul mar Nero, in Crimea, si erano presi l’abilitazione a diventarlo di fronte all’Inghilterra di Churchill e alla Russia di Stalin.
Settantotto anni dopo, il russo Putin, l’americano Trump e, in collegamento diretto da Londra, il premier Starmer si ritrovano a parlare di Crimea e a decidere.
Naturalmente per la pace che interessa anzitutto l’Europa. E essa, ancora convitato di pietra?
Foto di Andrea Lombani