E’ certamente da oscurantisti – ma potrebbe essere preteso dai cittadini per capire quel che davvero i parlamentari vogliono quando parlano – eliminare le dirette tv delle sedute di camera e senato, consentendo agli onorevoli di essere tali e non svilirsi in ruoli da comprimari e comparse nel teatrino che, non di rado, diventano Montecitorio e Palazzo Madama.
Così, forse, la presidente del consiglio avrebbe evitato di lanciare nello stagno di aule ormai troppo spesso ininfluenti il pietrume di frasi tolte qua e là dalle poche di pagine del Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. Divisi su molto, ma uniti nella lotta per la democrazia e la pace che gli aveva meritato il confino.
Altrettanto vale per chi, tra i parlamentari, ha agevolato l’alta marea provocata (ad arte?) dalla presidente, rispondendo con una difesa di pancia emotiva, prima che di analisi ragionata.
Il Manifesto, in pieno fascismo e con i sovranismi nazionali sfociati nella seconda guerra mondiale, indicava la via della abolizione della divisione all’interno dell’Europa, senza la quale “qualsiasi altro progresso non è che apparenza”. Tappa, peraltro, in vista “dell’unità politica dell’intero globo”. Insomma, l’”organizzazione razionale degli Stati d’Europa, garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione”,
L’Europa, stato federale “con una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali. Che spezzi le autarchie economiche, che abbia gli organi e i mezzi per far eseguire le sue deliberazioni”.
Un sogno in piena guerra, declama oggi Roberto Benigni. Visione. Accompagnata dalla indicazione, a riprova, del superamento degli “staterelli” per l’unità d’Italia, da un lato. Dall’altro, perché si è “dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni”
Di quel sogno non si può, perciò, non essere partecipi e quell’Europa non può non essere portata a compimento sapendo, però, che, quando si tratta di superare i particolarismi, la strada non è facile. Quindi, difficoltà sì perché ancora permangono, ma effimere sceneggiate a favor di telecamera, no.
Ne era consapevole, scrivendo il Manifesto, Altiero Spinelli e, decenni dopo, quando il PCI gli offrì di candidarsi alle politiche del 1976 chiese, prima di accettare, di parlare col segretario Enrico Berlinguer. Sapeva, infatti, che i comunisti non erano stati fautori dell’idea della “piccola Europa” realizzata da Schumann, De Gasperi, Adenauer e Spaak. Togliatti, al tempo della CECA, la considerava, infatti, un accordo economico ispirato dagli USA per mettere una parte del continente contro l’altra. Lui preferiva “l’Europa che comincia dagli Urali e finisce all’Oceano Atlantico”.
Poi, nel 1969, i suoi entrarono nel Parlamento di Strasburgo e Giorgio Amendola, nel 1971, scrisse un libro (I Comunisti italiani e l’Europa) con chiaro intento pedagogico per militanti ed elettori descrivendo compiti, funzionamento, organi della Comunità.
Ce n’era bisogno e, non a caso, Spinelli chiese il colloquio a Berlinguer che lo rassicurò: “il PCI vuole battersi veramente per l’Europa”. Tuttavia – racconterà, nel 1985, a Giorgio Migliardi che lo intervistava per la pubblicazione edita dall’Unità nell’anniversario della morte dell’inventore dell’Eurocomunismo – “Non ero del tutto convinto. Ora fanno così, mi dicevo, perché ci sono le elezioni”.
La conferma, però, l’ebbe, poco dopo, quando, con altri deputati di diverso orientamento (il Gruppo del Coccodrillo, dal nome del ristorante strasburghese dove si riunivano), ideò (rivide aggiornandolo?) un “nuovo progetto di trattato” e si mise alla ricerca di adesioni autorevoli.
Lo presentò, perciò, a Berlinguer che “mi dice: E’ una battaglia giusta. Prende il foglio e firma”.
Erano trascorsi più di quarant’anni dai tempi di Ventotene e di acqua sotto i muri e ponti della politica ne era passata molta. Senza però travolgere l’idea.
Foto di Andrea Lombani