Sono davvero tante le persone che praticano il “job jumping” e saltano da un lavoro all’altro inseguendo il sogno di una retribuzione più elevata. Il legittimo desiderio di trovare un “posto” maggiormente remunerato è il motore della continua caccia a nuove opportunità di impiego e per molti, nella convinzione che si valga in proporzione a quanto si guadagna, è esempio da seguire…
E’ la logica che ha sventrato la solidità dei Paesi evoluti, quelli dove nessuno sogna di fare l’insegnante perché la paga è da fame e la considerazione sociale è poco distante dalle aggressioni quotidiane da parte di genitori e studenti.
Un simile pensiero ha implacabilmente sotterrato i valori sociali, ha tramutato gli esseri umani in bestie assetate di soldi e pronte a tutto pur di accaparrarne il più possibile. L’avidità – oltre a sbriciolare le relazioni all’interno delle collettività e persino nei nuclei famigliari – porta a forme di autolesionismo che sfociano in situazioni dove il maggior guadagno non ripaga certo di amarezze, umiliazioni, compromessi che ne sono il prezzo…
Servirà a poco, ma in questi giorni è uscito il World Happiness Report, studio annuale pubblicato in occasione della Giornata Internazionale della Felicità che nella sua ultima edizione ha analizzato gli atti di benevolenza e le aspettative della gente nei confronti della rispettiva comunità. Il rapporto ha portato a scoprire che il 70 per cento della popolazione mondiale oggetto di campionamento ha fatto almeno una cosa carina nell’ultimo mese. E’ spontaneo immaginare che il restante 30% inglobi soggetti come Donald Trump, Elon Musk, JD. Vance, Vladimyr Putin, Bibi Nethanyau, Recep Tayyip Erdoğan, Viktor Orban e probabilmente anche qualche personaggio nostrano…
Forse in quel trenta per cento di persone che non riconoscono l’importanza di gentilezza e armonia rientrano quelli che comandano nelle aziende e negli uffici pubblici, le cui scelte e condotte alimentano contesti astiosi, ferocemente competitivi, improntati sulle lotte fratricide, e fomentano il disinteresse per le sorti di chi è intorno…
Ci sono quindi prove scientifiche o almeno statistiche che fare cose buone aiuta a sentirsi più felici sia chi le riceve sia chi le fa.
Lara Aknin, professoressa di psicologia sociale alla Simon Fraser University nella British Columbia e redattrice del World Happiness Report, parla della fortunata combinazione di tre “C”: coffee, choice, clear.
Coffee? Si dice che si dovrebbe cominciare regalando ogni giorno l’equivalente di un caffè a chi è in condizioni di bisogno. La Aknin ha in realtà copiato dalla meravigliosa gente partenopea, mutuandone il “caffè sospeso” lasciato pagato al bar per un avventore che non può permetterselo. Perdoniamo la “prof” ma riconosciamo la paternità napoletana sia del pensiero legato alla prima C sia per la ripetizione tre volte di quella lettera che in realtà – all’ombra del Vesuvio, avevano riservato al fatidico “Comm’ Cazz’ Coce”…
Veniamo al “choice” e scopriamo che corrisponde a “scegliere” ovvero alla possibilità di decidere autonomamente di fare del bene, opzione che rallegra il cuore del donatore, regala emozioni, consacra la libertà di essere gentili, caritatevoli, altruisti.
La terza C sta per “clear”, ossia chiaro, evidente. La felicità sboccia quando si tramuta nella consapevolezza di non aver sbagliato a indirizzare il proprio comportamento ad aiutare gli altri.
Si dovrebbe far tesoro di queste considerazioni.
Una donazione, un’ora di volontariato, una piccola elemosina a chi tanti allontanano bruscamente senza temere di manifestare disagio, un qualunque altro piccolo atto di gentilezza, addirittura un attimo del proprio tempo possono cambiare la vita di chi non si risparmia nel dispensare generosità.