Chi sono monsieur Macron e mister Starmer per promuovere e poi far attuare l’invio di soldati in Ucraina, seppure lontano dal fronte e a pace raggiunta? Sono le President de la France ed il Premier del Regno Unito. Decisivi e decisori a casa loro, ma in Italia l’adesione all’iniziativa può giustificare la limitazione di sovranità prevista dall’art.11 della Costituzione in materia di interventi delle Forze Armate per la pace?
La questione fu oggetto di riflessioni a livello di esperti (Paolo Barile, Giovanni Motzo, Livio Paladin) chiamati dal Quirinale, nell’estate 1990, ad analizzare gli ambiti ed i confini entro i quali poteva essere consentita la partecipazione italiana in Iraq ai tempi della guerra del Golfo. Ne derivò un fitto carteggio con il governo. Lettere e appunti indirizzati dal Colle al presidente del consiglio Giulio Andreotti ed al ministro della Difesa Virginio Rognoni.
I due interventi, quello del 1990 e quello oggi indicato come espressione di “Volenterosi”, risultano certamente diversi. Anche perché, se da un lato si tratta pur sempre di stivali sul campo (in azione o comunque in ipotesi), dall’altro, la missione in Ucraina non è stata ancora ben definita negli obiettivi e nelle strategie, nelle regole d’ingaggio e nella catena di comando.
Macron ne ha parlato come di forze di rassicurazione – da mandare ad armi silenziate – per “fornire un sostegno a lungo termine e agire da deterrente nei confronti di una nuova potenziale aggressione armata”. Ecco, e se l’aggressione diventasse reale, quali devono essere le regole di ingaggio compatibili con i nostri impegni e obblighi costituzionali?
In proposito e ferma la distinzione delle due situazioni (Ucraina/Golfo), può essere utile ricordare i percorsi interpretativi dell’art. 11 della Carta che, nel 1990, fecero le massime istituzioni dello Stato. Compreso il parlamento per le decisioni di competenza assunte su proposta del governo, al quale spettava valutare e definire il “titolo politico” che, per la accertata “comunanza di interessi di paesi alleati”, consentiva, in virtù della seconda parte dell’art. 11, di derogare al principio assoluto del ripudio della guerra stabilito al primo alinea.
Il presidente della Repubblica dell’epoca – che, peraltro, era costituzionalista di professione – nella lettera a Rognoni del 14 settembre 1990, precisò che la “guerra” di cui parla la Carta non è soltanto lo specifico “stato giuridico di diritto interno e internazionale” che va sotto tale nome, ma “in generale, l’uso di mezzi di guerra, tra i quali l’impiego delle Forze Armate in operazioni militari: e cioè in operazioni che…per le condizioni in cui si svolgono, implicano o possono implicare con previsione certa o ragionevolmente probabile…l’uso di mezzi di coercizione militare e quindi delle armi in senso tecnico”.
Dalla lettura integrale del testo dell’art.11, e cioè ripudio della guerra e limitazione della sovranità in materia a fini di pace internazionale – chiariva Cossiga – la liceità dell’uso della forza tramite l’impiego delle Forze Armate può essere ammessa solo in caso di difesa o autodifesa collettiva ai sensi dell’art. 51 della Carta dell’ONU (attacco armato). “In questi casi, si può comprendere quella in forza dell’art.5 del Trattato Nato (l’attacco ad un paese membro coinvolge anche gli altri) e qualora l’impiego delle Forze Armate sia disposto – non soltanto consigliato, raccomandato o autorizzato, ma ordinato – dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
In questo quadro, pare porsi il governo italiano quando, per l’invio di militari in Ucraina, richiama le missioni ONU o suggerisce l’estensione del solo articolo 5 del Trattato Nato al paese europeo aggredito.
Foto di Andrea Lombani