Nonostante le vittime eccellenti, non se ne parla già più. Come sempre, d’altronde. Le notizie durano meno del pesce lasciato fuori dal frigo e i problemi si dimenticano con facilità e intrinseco piacere.
La storia dei droni è scomparsa. L’unica cosa che abbiamo capito è che, come il “Triangolo delle Bermuda” rappresenta l’epicentro dei più drammatici incidenti, il Lago Maggiore sta diventando il punto di riferimento delle pagine maggiormente appassionanti dello spionaggio internazionale degli ultimi anni.
Il naufragio del catamarano di due anni fa in occasione della finta rimpatriata in cui persero la vita agenti segreti italiani e israeliani è stato solo il primo episodio ambientato nell’area dello specchio d’acqua prealpino del “Verbano”.
La zona è tornata ad essere il set dell’ennesima “spy story”, stavolta fortunatamente senza morti o feriti in carne d’ossa. Gli unici due morti, già autonomamente in precarie condizioni, sono infatti la stampa e la sicurezza nazionale.
Il giornalismo è stato ucciso a sangue freddo con un colpo alla nuca da chi ha confuso la località di Ispra (dove ha sede il Joint Research Center) con l’Istituto Superiore per la Protezione Ambientale il cui acronimo è appunto ISPRA.
La scena del delitto sono le pagine web (ancora in linea) di Repubblica (qui la copia storica al netto di eventuali successive modifiche) e del Quotidiano Nazionale (Giorno, Nazione, Resto del Carlino, qui la cristallizzazione della pagina su archive.org) i cui titoli sono addirittura “commoventi”.
Il secondo martirio è quello della sicurezza nazionale, la cui vulnerabilità è platealmente evidenziata da episodi che dimostrano come l’Italia sia proprio un facile bersaglio.
Un drone – da quel che si dice per ben cinque volte o forse più – ha sorvolato un centro di ricerca ad elevata criticità e non ci sarebbe nulla di strano se il velivolo senza pilota non avesse attraversato una delicatissima “no fly zone”, ovvero una fetta di territorio esclusa per ragioni di sicurezza dal passaggio di aeromobili.
Il divieto a scorrazzare per il cielo sopra certi luoghi vale quando a terra ci sono insediamenti militari, stabilimenti o laboratori di rilievo strategico, infrastrutture che richiedono la massima riservatezza. Esiste da sempre e tale vincolo è ora più giustificato che mai.
Mentre i fantasiosi cronisti parlano di un oggetto di fabbricazione russa (forse per l’odore di vodka disperso in tutta la zona) ed immaginano cosa e come possa aver combinato dall’alto rubando chissà quali segreti, vale la pena limitarsi ad una banale e cinica riflessione.
Se quel drone avesse portato con sé un piccolo ordigno batteriologico o chimico e lo avesse voluto “recapitare” in loco facendolo esplodere o semplicemente cadere affidandosi alla estrema fragilità del suo involucro in sottilissimo vetro da fialetta, cosa sarebbe successo? E se un domani il bersaglio fosse un altro, magari ben più affollato di un centro di ricerca?
Dopo le farneticazioni di Elon Musk che – apparso in diretta video nel corso di un nostrano congresso politico – ha annunciato una stagione di attacchi terroristici in Europa, sembrerebbe ci sia poco da stare tranquilli. Anche perché cosa ne sa Musk che noi non sappiamo? O, peggio, cosa ha in mente per il destino del Vecchio Continente che Trump accusa di aver storicamente sfruttato e danneggiato gli Stati Uniti?