Due mesi dopo gli attentati alle Torri gemelle, nel 2001, l’ingresso della Cina, allora “paese debole”, nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il coronamento della globalizzazione del mercato dei beni e dei servizi da semplificare e liberalizzare.
Secondo il presidente USA Bill Clinton, la Cina, beneficiando di agevolazioni in materia di esportazioni soprattutto verso gli Stati Uniti, si sarebbe trovata ad operare con le sue imprese, in gran parte di proprietà dello Stato, in una realtà capitalistica.
C’erano state le proteste degli antiglobalisti, ma Clinton – come ha scritto nella sua autobiografia – pensava che “le forze anticommercio e antiglobalizzazione sbagliassero nel ritenere che il commercio avesse aumentato la povertà”. Non solo, ma “l’integrazione della Cina nell’economia globale avrebbe aumentato il suo grado di accettazione delle norme legali internazionali e la collaborazione anche in altri campi”: la strada della democratizzazione.
L’industria, in particolare quella automobilistica, non era entusiasta dell’iniziativa e, non a caso, della delegazione presidenziale che a Pechino trattò la questione col primo ministro, Zhu Rongjii, faceva parte anche Jhon Dingell del Michigan. Lo Stato che “la dipendenza dall’industria automobilistica ne faceva centro di spinte protezionistiche”.
Da allora, le imprese cinesi vendendo beni e servizi negli Stati Uniti hanno gonfiato fino ai dati attuali la bilancia commerciale, con gli scambi in dollari. Poi, il finanziamento del debito americano grazie all’acquisto da parte del Dragone di titoli pubblici a stelle e strisce.
In sostanza, per Clinton, “uno degli sviluppi più importanti dei miei otto anni alla Casa Bianca”.
Passati venticinque anni, dalla stessa Casa Bianca, il contrordine, dopo che il popolo votando aveva chiesto al nuovo inquilino un deciso cambio di rotta rispetto alla situazione che si è determinata con le fabbriche che preferiscono localizzarsi in Asia, il lavoro difficile entro i confini nazionali, l’impoverimento diffuso.
Il rimedio: “un fiorino!” in più di dazio su ogni merce importata negli States. Trump ha chiamato Liberation day il giorno in cui lo ha annunciato.
Un fatto storico, scrivono i commentatori, ma era storico anche l’11 dicembre 2001 quando avvenne l’ingresso della Cina nel WTO. Se ne valutarono allora i benefici, se ne condannano ora le negatività, tra le quali spicca lo strapotere che, nel frattempo, ha assunto la finanza. Non più strumento a sostegno, incentivo e remunerazione del lavoro, ma, nelle nuove condizioni di liberalizzazione planetaria del mercato, il denaro merce da scommessa.
Compravendita di previsioni su quotazioni future di beni di ogni tipo, i derivati che, da copertura del rischio, diventavano essi stessi titoli-scommesse. I prezzi dei beni, dipendenti prima che dalla loro qualità e quantità, dalla “finanza” che scommette su di loro, i consumatori che ne subiscono i possibili danni.
A monte, la liberalizzazione del mercato del credito attraverso l’eliminazione della distinzione tra banche commerciali e banche d’investimento, la cartolarizzazione dei crediti concessi che si trasformavano così in titoli da vendere sul mercato, con lo spostamento del rischio dall’erogatore del credito ai compratori dei titoli medesimi.
Come aveva già fatto nel suo primo mandato – ma allora con intenti più tecnici – Trump, coi modi rudi che gli sono propri, pare tornare ad un protezionismo che, se da un lato vuol essere la risposta agli elettori impoveriti dai produttori che delocalizzano e dalla finanza spericolata, dall’altro, potrebbe, teoricamente, correre il rischio di trasformarsi in autarchia, certamente un male per un paese tradizionalmente importatore,
In un contesto, geopolitico, peraltro, in cui la Cina, producendo a bassi costi economici e normativi, è diventata per l’Occidente, Stati Uniti compresi, il fornitore che consente di vivere al di sopra delle possibilità.
Con l’aggravante del peso quale detentrice del debito pubblico americano.
E’ vero che il maestro della scienza politica, Niccolò Machiavelli, scriveva “Debbe uno principe savio fondarsi su quello che è suo, non in su quello che è d’altri”, ma di “principi” illuminati in giro non pare ci sia abbondanza e il “fiorino” dei gabellieri rinascimentali non fa, più da solo, le entrate di una nazione e tantomeno il benessere dei cittadini.
C’è da augurarsi, perciò, che la prudenza, ad ogni livello, porti all’equilibrio economico su cui anche la pace tra le nazioni si fonda. Senza rinunciare alla globalizzazione, ma regolamentandola.
Cercasi, in proposito, la “politica” cui spetta normare, definire, cioè i confini entro i quali, l’autonomia mercantile e finanziaria delle nazioni e del mondo può e deve esplicarsi.
Nel solo interesse dei cittadini. Delle persone, tutte. in ogni continente.
Foto di Andrea Lombani