L’amore di Trump per le tariffe è di lungo corso. Già dal 1980, nei suoi discorsi si schierava a favore di queste forme di protezionismo. Nella sua recente campagna elettorale ne ha fatto uno dei suoi capisaldi, insieme all’immediato stop della guerra in Ucraina e il blocco dell’immigrazione illegale negli USA.
L’obbiettivo delle tariffe a prima vista sembra essere quello di rimettere in moto la produzione industriale americana che nel corso degli ultimi 40 anni si è sempre più affidata alla delocalizzazione soprattutto in Cina, ma non solo. Il motivo è semplice: costi più bassi di produzione è più alti margini di guadagno. Se la Apple, Nike e tutte le altre piccole, medie e grandi industrie che si sono trasferite in oriente vendono il loro prodotto a 100 è probabile che il costo reale del prodotto sia 20 e dunque il margine di profitto sia enorme.
Anche il consumatore tutto sommato era felice perché poteva comperare il tostapane costruito in Vietnam, o Cina ad un prezzo bassissimo e anche se il suo stipendio non è aumentato negli ultimi 30 anni nemmeno di un dollaro o euro, poteva soddisfare le sue necessità, comunque, grazie ai bassi prezzi. Con le tariffe tutto questo meccanismo viene comunque sconvolto mettendo in allarme sia i produttori che i consumatori anche se questi ultimi se ne accorgeranno solo dopo che la frittata sarà fatta.
Trump vuole riportare l’industria in America per creare posti di lavoro e rilanciare l’idea di “America first”: questo è lo slogan che viene ripetuto dai suoi fedelissimi, che però omettono di dire che le tariffe sono innanzitutto tasse sui cittadini americani, che, se vogliono comperare il famoso tostapane dovranno pagarlo ad un prezzo maggiorato, proprio da quelle tariffe imposte dal presidente.
Non fanno menzione del processo inflattivo che si può generare, e soprattutto non dicono che per ricostituire un tessuto industriale competitivo ci vogliono molti anni ed in alcuni casi non è detto che il mercato imprenditoriale ne sia capace. Già perché per sviluppare una fabbrica non basta costruire il capannone e assemblare i macchinari necessari e assumere i lavoratori che dovranno essere addestrati; questa forse è la parte più semplice.
In realtà occorre mettere in piedi tutta la catena logistica di approvvigionamenti; approvvigionamenti che non sono sempre reperibili nel perimetro nazionale ma che occorre importare proprio da quei paesi a cui si sta cercando di fare la guerra commerciale.
Nel caso di alcuni prodotti, inoltre, le tariffe potrebbero rivelarsi del tutto inefficaci nel negare la loro penetrazione nel mercato domestico. Si prenda ad esempio i macchinari agricoli; John Deere il più grande marchio americano di mezzi per l’agricoltura di tutti i tipi e dimensioni e grande esportatore nel mondo, sono anni che vede erodere fette di mercato globale a favore dei produttori cinesi dello stesso segmento.
Se si compara il prezzo di un mezzo prodotto dalla Shandong Derette Machinery con lo stesso mezzo prodotto in America e includendo i dazi applicati, risulta comunque più conveniente comprare il mezzo cinese che oltre a fornire il nudo trattore offre a corredo, ed incluso nel prezzo, 5 o 6 adattatori che ne fanno un mezzo utile per multipli lavori, contro il monouso del prodotto made in USA.
Ma cerchiamo di andare oltre quello che le tariffe rappresentano da un punto di vista strettamente economico e vediamo di decodificare il messaggio di Trump; perché il Presidente USA dopo aver applicato tariffe a tutto il mondo (con picchi più alti verso alcuni Paesi come Cina e Vietnam), le ha sospese quasi subito stabilendo una moratoria di 90 giorni?
Il messaggio a tutti i Paesi è il seguente: “o con me o contro di me”
Il disegno di Trump, come anche dell’amministrazione precedente è quello di isolare la Cina, per non compromettere il primato e l’egemonia economica americana nel mondo. Un estremo tentativo di bloccare la vertiginosa crescita cinese che nell’arco di 40 anni è diventata la leader indiscussa in quasi tutti i campi.
Donald è andato alla conta; vuole capire chi sono gli amici e chi i nemici. Non c’è molto spazio per la mediazione. Il processo era già cominciato da qualche anno con la richiesta di “decoupling”, “de-risking” “reshoring” dal mercato cinese. Tutte parole che di fatto hanno un solo significato: non fate più affari con Pechino.
Ma la difficoltà di questa operazione era apparsa subito enorme. Troppo imponente la produzione cinese. Troppo essenziali i suoi prodotti. Assolutamente necessarie le terre rare di cui la Cina dispone.
I contraccolpi di quel tentativo si fecero sentire quasi subito e per fare un esempio su tutti, il Dipartimento della Difesa americano fu il primo a richiedere ed ottenere di essere esentato dalla applicazione di quelle misure: non sarebbe stato in grado di far continuare ad operare aerei, navi, armi, ed a produrne di nuovi, senza la componentistica e i materiali provenienti dalla Cina.
L’Unione Europea cercò di venire incontro ai desiderata dell’alleato d’oltreoceano, e come al solito penalizzò le proprie industrie limitandone lo scambio commerciale con l’est. Tra le sanzioni alla Russia che sono diventate un boomerang, e le politiche di esclusione cinese, Bruxelles ha trascinato l’economia europea nel peggior periodo economico del dopoguerra. L’Italia si è affrettata a cancellare l’accordo stipulato con Pechino sulla via della seta, e la Germania con la sua caduta economica rappresenta il sigillo al fallimento di Bruxelles.
Dunque, perché Trump è arrivato alla conta finale? La risposta risiede nella visione che lui e molti come lui hanno degli Stati Uniti: una nazione egemone nel mondo, che grazie alla sua potenza economica e militare, al dollaro ed al fatto che dalle due guerre del secolo scorso ne è sempre uscita intatta nelle sue strutture domestiche, ha potuto dettare legge è guidare l’economia mondiale.
Ma oggi questa visione, che aleggia anche da noi in Europa, non rappresenta più la realtà delle cose.
L’Inghilterra che rincorre i sogni ed i fasti di un impero che non c’è più, la Francia che perde pezzi delle ex colonie e si dibatte in una crisi politica interna difficile, la Germania che chiude le storiche fabbriche della Volkswagen, rappresentano un declino che accompagna quello dell’alleato “protettore”, sul quale oggi ci si interroga anche sulla sua reale volontà di continuare a fornire il fatidico ombrello militare.
Ecco che come un giocatore di poker Trump chiama: “all in”. Punta tutto su questa mano. Calcolando che il suo bluff non venga scoperto.
Nella fatidica discussione con Zelensky a Washington disse al Presidente Ucraino che lui non aveva le carte per competere contro la Russia. Questa volta potrebbe essere lui a non avere le carte per giocare la partita con la Cina.
Nel recente discorso di Putin tenutosi a Mosca il 18 marzo, alla presenza degli industriali russi provenienti da tutta la federazione, ha detto chiaramente alla platea di non guardare più a ovest per i propri affari. Di non farsi illusioni: le sanzioni rimarranno e non ci saranno cambiamenti della politica verso la Russia. Come dire: ci siamo fidati in passato, ora non più. E se ci fosse qualche dubbio sulla solidità dell’asse Mosca-Pechino, a maggio è prevista la visita di XI a Putin.
Questo tipo ti atteggiamento da “sfida all’OK Corall”, ha gettato nell’incertezza più completa non solo i mercati ma anche i Paesi in giro per il mondo, inclusa ovviamente la nostra dirigenza europea e nazionale; in Europa siamo ancora sotto evidente choc per il repentino cambio di rotta americano nei confronti della guerra in Ucraina e questa storia delle tariffe imposte dal nostro alleato ci ha lasciato ancora una volta senza una chiara strategia.
Ma nel resto del pianeta già si cominciano a vedere alcuni posizionamenti. I paesi Brics allargati, hanno già un punto di riferimento consolidato da moti anni ormai e la loro scelta sarà probabilmente più semplice. Altri come il Giappone e la Corea del Sud storicamente allineati militarmente con Washington, si sono affrettati a invitare in un trilaterale a Tokio il ministro degli esteri cinese.
La penetrazione commerciale di Pechino in Asia è così poderosa che non ci sono molti dubbi su quale scelta verrà fatta da quei Paesi. Ma anche in Africa l’economia cinese si è sviluppata moltissimo con risultati significativi dal punto di vista commerciale.
La recente apertura del gigantesco porto in Perù gestito da Cosco, la compagnia di Pechino che con oltre 400 navi gestisce il trasporto marittimo di container da e per la Cina, rappresenta un importante tassello della penetrazione del commercio cinese nell’America del sud.
Cosa farà Trump se il suo bluff verrà scoperto e la maggior parte del mondo si chiamerà fuori da questa conta e da questa divisione tra amici e nemici? Difficile dirlo perché il personaggio oltre ad essere vulcanico, è imprevedibile e può cambiare registro in una frazione di secondo. Isolare la Cina non appare una operazione fattibile e nemmeno convincere il resto del mondo a fare altrettanto. È più facile che alla fine siano proprio gli Stati Uniti e con essi i pochi fedelissimi a rimanere isolati.
Una cosa appare chiara: il mondo non è più unipolare. Quella è storia passata, anche se chi dovrebbe accorgersene fatica a farlo.