Inizierò contraddicendo il titolo di questo articolo perché in realtà il caffè, almeno nei modesti quantitativi in cui lo assumo abitualmente, non mi rende affatto nervoso.
Mi innervosiscono invece e moltissimo gli infantili comportamenti di acquisto da parte di una nutrita fascia di consumatori, che inevitabilmente finiscono nella trappola di banali e datate strategie di marketing.
Intraprendo pertanto una mia personalissima crociata contro Nespresso, appartenente al gigante multinazionale Nestlè, scagliando questa pietra pur non essendo senza peccato.
Infatti anche io sono (o forse sarebbe più corretto dire sono stato) un acquirente ed utilizzatore del caffè in capsule.
La praticità di questa scelta è innegabile: il caffè è buono, lo prepari velocemente e non devi perdere tempo a ripulire mezza cucina dopo aver smontato e lavato la caffettiera schizzando rimasugli di fondi ovunque.
È come dire se sia più pratico radersi con schiuma rapida e multilama o con pennello, sapone, rasoio a mano libera e relativa coramella.
Nella fase della mia vita in cui la variabile tempo era determinante nemmeno l’aspetto “rituale” della preparazione del caffè esercitava un particolare appeal su di me, anzi se avessi potuto assumerlo per flebo insieme al resto dell’alimentazione lo avrei fatto per ottimizzare i miei tempi lavorativi e quindi l’espresso in capsule, pratico e veloce, faceva perfettamente al mio caso.
Anche alla fase dell’acquisto dedicavo pochissimo tempo, delegando qualcuno o, quando proprio non era possibile, entrando nel negozio (pardon, nella boutique) con la carta di credito tra i denti e ringhiando “prendo quello dell’altra volta” per scoraggiare qualunque tentativo di proposta commerciale alternativa da parte del commesso.
Parto quindi dall’illustrare le ragioni alla base del mio personalissimo embargo nei confronti della Nespresso, anzi, ancor meglio, inizierò escludendo le motivazioni che non hanno orientato questa mia scelta.
Non sono state ragioni salutiste, sebbene anche Report in una trasmissione di qualche tempo fa evidenziò la presenza nelle capsule del caffè (non solo Nespresso) di alluminio, bario, manganese e rame.
Nella circostanza fu anche evidenziata l’elevata concentrazione di furano, sostanza volatile cancerogena, ma Nespresso aprì un immediato fuoco di controbatteria dicendo che le cose non stavano esattamente così mettendo tutti a tacere e quindi taccio anche io.
Non mi ritengo nemmeno un ambientalista e quindi non è l’impatto ambientale a farmi metaforicamente correre la mano alla fondina della pistola, anche se il tema dello smaltimento delle capsule di alluminio è stato sollevato da più parti.
Riesco pertanto a mantenere un compassato distacco nell’apprendere che le capsule di alluminio consumate in un anno messe in fila farebbero 12 volte il giro della Terra, che il consumo di 10 mld di tazzine l’anno comporta la produzione di 120 mila tonnellate di rifiuti di cui 70 mila in Europa e che l’Italia con 1,5 mld di tazze di caffè l’anno (e 12 mld di tonnellate di rifiuti in discarica) è un mercato importantissimo, tant’è che dei 12 giri intorno alla Terra uno potrebbe essere fatto con le capsule consumate da noi.
Peraltro va detto che Nespresso, svelando pudicamente una insospettata vena ambientalista, ritira e ricicla le capsule di alluminio.
Il verbo “ritira” non è in realtà del tutto corretto perché la normativa italiana in tema di rifiuti vieta il ritiro degli stessi da parte di privati.
Pertanto è il consumatore che deve riconsegnare le capsule presso un punto vendita (credo siano 8 in tutta Roma su di una superficie di 1.300 kmq).
Se non hai voglia di prendere la macchina e attraversare mezza città, puoi però sempre aprire una ad una le capsule, togliere il contenuto da smaltire nell’umido, pulire accuratamente la capsula e gettarla negli appositi raccoglitori per l’alluminio (ma esistono? Parrebbe di sì, ma io non ci ho mai fatto caso).
Se invece non hai tutta questa pazienza e butti tutto nell’indifferenziata, il vandalo che attenta all’ambiente sei tu e non Nespresso…ed a ben vedere anche questa è un’operazione geniale con la quale la multinazionale è brillantemente uscita dall’angolo in cui hanno provato a chiuderla ambientalisti ed associazioni di consumatori.
Riesco infine a non farmi coinvolgere emotivamente dall’interrogativo su come verranno smaltite le macchine per il caffè una volta che avranno esaurito il loro ciclo vitale così come cerco di non mi soffermarmi troppo a pensare a come sarò smaltito io stesso una volta che avrò terminato il mio.
Questo mio sublime distacco Zen è però andato in frantumi quando entrato nella cosiddetta “boutique” Nespresso mi sono ritrovato a scontare tempi di attesa biblici e non per una fila interminabile, no….
Bensì perché qualche massaia con tanto di sporta per la spesa, che probabilmente in una prova di assaggio non saprebbe distinguere un vino bianco da uno rosso e un olio d’oliva da uno di semi o da un olio Fiat esponeva ad un commesso compunto dotte valutazioni sulle caratteristiche organolettiche del caffè che intendeva acquistare.
E non ne faccio una questione di genere perché talune delle massaie in argomento erano accompagnate dai rispettivi mariti che invece di trascinarle via per un braccio dopo un quarto d’ora di questa tortura, annuivano compresi nella parte cercando a loro volta di dire qualcosa di intelligente, impresa quanto mai ardua in un contesto del genere.
Quindi ho potuto ascoltare i suddetti attori disquisire dottamente sul fatto che avrebbero voluto un caffè con caratteristiche organolettiche e profili sensoriali diversi da quello acquistato l’ultima volta, con un corpo più leggero, in cui però le note legnose, terrose ed affumicate lasciassero inalterato il retrogusto agrumato, fiorito e di bergamotto, con particolare riguardo alle differenti peculiarità della miscela Arabica rispetto alla Robusta in termini di aroma, sapore ed acidità.
Caffè! Vi rendete conto! Parliamo di semplicissimo caffè, quello che mia madre comprava dal droghiere in chicchi e macinava con il macinino a manovella, un prodotto basico tanto da rientrare nel paniere ISTAT, persino nella varietà decaffeinata.
Il commesso, compreso nel ruolo di esperto consulente, non solo non scoraggiava questo andazzo, ma offriva anche una prova d’assaggio per verificare quanto avesse compreso delle sofisticatissime istanze dei suoi qualificatissimi interlocutori.
I quali dopo tutto ‘sto cinema, se ne sono andati con un blisterino miserrimo avendo l’aria di aver acquistato un diamante direttamente dalla De Beers.
Al primo moto di rabbia subentrò però una fase di riflessione più approfondita.
Se il fenomeno fosse stato circoscritto ai 4/5 soggetti che mi precedevano il mio malumore avrebbe avuto una
giustificazione, ma questo modello di acquisto è ormai esteso e consolidato ad una sterminata platea di consumatori sparsi in Paesi diversi.
Sono tutti degli esaltati fuori di testa come quelli che ho incontrato io o c’è una ragione più profonda che porta persone apparentemente normali a comportarsi in un modo così surreale e, se vogliamo, ridicolo?
Per dare una risposta a questa domanda devo rispolverare antiche reminiscenze risalenti a più di quarant’anni fa e la cosa mi fa ancora più rabbia.
Infatti un conto è cadere in una avveniristica trappola commerciale ordita con le più avanzate tecnologie del terzo millennio, altra è essere gabbati con modelli che Kotler, universalmente riconosciuto come il padre del marketing, analizzava in profondità già nel 1967.
La letteratura esistente al riguardo è pressoché sterminata, ma le basi elementari del modellino di marketing mix sono più che sufficienti per spiegare queste dinamiche.
Partiamo dalle 4 P: i fattori che connotano il lancio di una proposta d’acquisto sul mercato si possono riassumere in Prodotto, Prezzo, Posto, Pubblicità.
Si parla di “marketing mix” perché le 4 P si combinano con pesi diverse con le tre fasce di mercato in cui il prodotto si posiziona (convenience, shopping, specialty).
Credo che un esempio pratico possa rendere più comprensibile questa matrice.
Il rasoio usa e getta è un classico “convenience”.
Delle 4 P in questo caso sono importanti le P di posto e prezzo.
Quindi è determinante averlo a portato di mano, ad esempio alla cassa del supermercato e pagarlo poco.
Le caratteristiche del prodotto e la pubblicità che le enfatizzi sono scarsamente rilevanti e pertanto poco rappresentate.
Un rasoio multilama a testina intercambiabile è invece uno “shopping”: la P di posto in questo caso è meno rilevante, perché se non lo si trova al supermercato, si è disposti anche ad andarlo a cercare altrove e a pagarlo di più (P di prezzo quindi anch’essa meno rilevante).
Di assoluto rilievo invece le caratteristiche del prodotto (P di prodotto) ed il modo in cui vengono trasmesse tramite la quarta ed ultima P (pubblicità): basti pensare che dal 1998 al 2000 la Gillette spese oltre 100 mln di dollari per il lancio del rasoio Mach 3.
Questa semplicissima griglia si può applicare a qualsiasi prodotto: di un’utilitaria ci aspettiamo che costi poco e che si possa acquistare con facilità perché difficilmente l’andremmo a comprare all’estero (Prezzo e Posto).
Se invece ci orientiamo su di un SUV, le caratteristiche del mezzo ed il battage pubblicitario (Prodotto e Pubblicità) orienteranno o quantomeno influenzeranno la nostra scelta (Shopping).
Se infine ci possiamo permettere una Ferrari (Specialty) non daremmo alcuna importanza a Prezzo, Pubblicità e Posto perché da Dubaj andremmo a ritirare la macchina a Maranello senza problemi ed anzi ringraziando calorosamente per averci ammesso tra i loro clienti.
Ora esaurita questa mini opera di alfabetizzazione passiamo al nostro caso: Nespresso confidando nella scarsa evoluzione di una fascia significativa di consumatori, ha preso un prodotto che esiste da più di 800 anni, già presente in capsule sul mercato da oltre 40 e da “convenience” agendo sulla P di pubblicità e la P di posto lo ha fatto percepire come uno “specialty”.
La genialità e la scommessa degli strateghi di marketing della Nestlè, che fatturando 83 mld di euro può permettersi di assumere gente bravina, è stata quella di attivare leve che nel caso di prodotti “convenience” non vengono mai attivate.
La P di posto, che nel caso di un prodotto “convenience” è stata sempre intesa come distribuzione estesa, qui è stata interpretata nel senso di (apparente) esclusività introducendo il concetto di un numero ristretto di cosiddette “boutique”.
Compri la Panda, ma in un posto che assomiglia in tutto e per tutto a Maranello, beneficiando dello stesso livello di servizio, discettando sulle più sofisticate soluzioni meccaniche e sgommando via contento sulla tua utilitaria dopo aver assaporato il dorato mondo “specialty”, avendo pagato per questo qualcosina in più.
Ma vuoi mettere la gratificazione? Poco conta se il qualcosina in più sommato a tante altre qualcosine in più che molti sono disposti a pagare per provare questa emozione fanno i 6 mld di euro di fatturato di Nespresso, perché business is business ed anche le emozioni hanno il loro prezzo.
Di fronte a questa schiacciante offensiva, mi sono ritirato attestandomi a caposaldo dietro una moka acquistata per l’occasione, in acciaio visto che c’ero, così ho eliminato del tutto il rischio di contaminazione di alluminio.
Ma anche questa posizione difensiva mi sembrava poco solida di fronte all’avanzata inarrestabile della poderosa macchina bellica Nespresso.
Sono pertanto arretrato ulteriormente alla caffettiera napoletana (anch’essa in acciaio, così l’alluminio è definitivamente sistemato).
Si, avete capito bene….la caffettiera con tanto di “cuppetiello” di Eduardo De Filippo, quella che si gira dopo l’ebollizione.
Usarla è un vero e proprio lavoro, mi porta via molto più tempo, non mi farà provare l’illusione di essere uno specialty, né mi farà sentire più intelligente…ma sicuramente mi rende meno nervoso.