Siamo in guerra, comunque vadano le cose. E le armi – se siamo fortunati – sono solo la privazione del gas e del grano, giusto per citarne due che cominciano con la lettera “G”.
In un momento così critico si pensa subito che, messe da parte le carte geografiche, nella dimensione digitale non siamo poi così lontani dalla Russia. Non siamo a migliaia di chilometri come il mappamondo avrebbe voluto farci credere e un ipotetico conflitto planetario “incruento” sul fronte telematico potrebbe scoppiare allo scattare di qualsivoglia embargo o misura sanzionatoria.
Un simile spettro, però, è certamente scongiurato dalla semplice esistenza di una apposita Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale che, a leggere i giornali, sta lavorando per tutelare il “perimetro cibernetico” e quindi per contrastare qualsivoglia pericolo che possa turbare il regolare funzionamento dei sistemi informatici da cui dipendono i servizi essenziali. Le cosiddette “infrastrutture critiche” (ossia le tecnologie che sono la spina dorsale e il tessuto connettivo di energia, telecomunicazioni, trasporti, sanità e finanza) sono indubbiamente blindate almeno da quanto si può evincere dai trionfalistici comunicati stampa o dagli austeri protocolli di intesa.
Queste premesse potrebbero indurre a scansare la tastiera e ad uscire a fare due passi. Al limite a me personalmente sarebbe consentito di rimanere al pc solo per continuare la ricerca di un sidecar “Watsonian” che da tempo vorrei far abbracciare alla mia Harley…
In realtà l’incandescente atmosfera creata dall’autoproclamato Zar del Terzo Millennio inchioda chi scrive e chi legge a questa manciata di righe, attratti forse dal voler sapere dove si vuole andare a parare in caso di aggressione.
Sbirciando sul web si apprende, infatti, che il nostro Ministero della Difesa sarebbe stato per anni cliente di pregio di una software house particolarmente affermata, le cui incontestabili capacità tecnologiche sono sempre state affiancate da qualche sospetto di eventualmente comprensibile vicinanza con la nazione di provenienza.
Cinque anni fa, su Il Fatto Quotidiano, mi ero già occupato della pericolosità di certe situazioni raccontando come la NSA americana si fosse esposta al rischio di spionaggio o interferenza con l’apparentemente banale installazione di un software antivirus.
Nel 2018 dalle nostre parti venne fuori la storia dei ministeri e degli enti pubblici che avevano comprato dall’azienda russa Kaspersky i programmi per la protezione dei propri sistemi informativi. La società creata, posseduta e diretta da un grande professionista laureatosi a Mosca nel 1987 presso la Facoltà di Matematica della Scuola Superiore del KGB vantava come clienti i dicasteri di Attività Culturali e Turismo, Difesa, Giustizia, Infrastrutture, Economia, Interno, Istruzione, Sviluppo Economico, l’Agcom (l’Autorità garante della concorrenza e del mercato), l’Enav, il CNR e la Direzione centrale dei Servizi Elettorali…
La richiesta di “accesso civico” (sfruttando le possibilità aperte dal cosiddetto Freedom of Information Act italiano,entrato in vigore nel dicembre 2016) formulata da Euronews e dal Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Digitaliha portato alla redazione di una tabella esplicativa che non ha solo valenza amministrativa ma che può portare a riflessioni che hanno carattere strategico.
Probabilmente la ripetizione di un simile riscontro – esteso a tutte le forniture la cui provenienza “di bandiera” potrebbe destare preoccupazione – sarebbe una valida occasione per rilevare potenziali rischi e per adottare qualche iniziativa tardiva nella miglior tradizione che vuole si chiudano le stalle dopo che i buoi sono scappati.