I casi sono due. O il graditissimo rivoluzionario Presidente degli Stati Uniti ha puntato alla leadership del “Pirat Partiet” oppure la sua determinata squadra si è limitata a resuscitare la Dichiarazione dei Principi della agguerrita compagine politica nata in Svezia nel 2006.
L’idea del bloccare i brevetti dei vaccini anti-Covid non è una improvvisa folgorazione, ma l’applicazione di uno dei capisaldi del programma del Partito Pirata anticipatore di molte delle ipotesi di lavoro che tanti dalle nostre parti spacciano per proprie intuizioni e su cui fanno poggiare le speranze di un futuro migliore.
La lodevole iniziativa di Joe Biden – osteggiata dall’universo delle Big Pharma – è evidente dimostrazione che i buoni propositi si possono davvero materializzare e che l’interesse collettivo può e deve sovrastare le implacabili leggi del profitto a qualunque costo.
La crociata del Partito Pirata – di cui ho avuto modo di scrivere quindici anni fa sulle pagine de Il Sole 24 ORE, nel supplemento NOVA 24 dell’8 giugno 2006 – non ha tagliato il traguardo ma forse c’è stato un invisibile passaggio di testimone che potrebbe portare ad una svolta epocale.
I visionari del “Pirat Partiet”, nel vedere che oggi l’inquilino della Casa Bianca prende una posizione ferma sui brevetti, si staccano l’etichetta di “utopisti” appiccicatagli da chi non credeva alla loro immaginifica prospettiva.
“Non sogni, ma solide realtà” verrebbe da esclamare memori di un vecchio spot di un noto immobiliarista.
I farmaci salvavita (dai tumori all’AIDS) e non solo i vaccini – come volevano i “pirati” – dovrebbero essere esclusi dall’ordinario regime di brevettabilità.
Qualcuno non faticherà a replicare che una simile azione costituirebbe un colpo ferale per le iniziative di ricerca e sviluppo cui danno corso le industrie farmaceutiche. “Si fermerebbe tutto…” è il refrain che fa eco impetuoso all’entusiasmo di chi ha accolto con favore le parole del Presidente USA.
In un mondo veramente 2.0 (anche se c’è chi parla di 4.0 persino in Italia dove il livello di informatizzazione non è degno di competere con il Terzo Mondo) si possono immaginare gli Stati che investono direttamente nella ricerca, incentivano lo studio, crescono nuove generazioni di scienziati, valorizzano chi è capace, evitano la “fuga dei cervelli” non geografica (cioè quella di chi lascia i centri universitari allettato dai maggiori guadagni che il “privato” è in grado di garantire).
Lo sconfortante scenario della imperitura lottizzazione degli incarichi di responsabilità nelle mani dei partiti e delle loro correnti è il primo pesante indizio che forse è inutile illudersi e sperare in un domani diverso.