Dopo anni di disinteresse e tanti tentennamenti, il parto dell’Agenzia testimonia la determinazione politica ad affrontare lo spinoso tema della cybersecurity. Qualcuno ha notato (e mi ha fatto notare) la curiosa coincidenza dell’aggressione digitale ai sistemi informatici sanitari di Zingaretti & C. avvenuta in concomitanza della definitiva approvazione della nuova salvifica struttura.
A volte le combinazioni del destino creano il clima più favorevole per trovare corale sintonia su un tema che chi è chiamato a votare nelle aule del Parlamento conosce (fatte le debite sparute eccezioni) davvero pochino.
L’accentramento delle attività in un contesto così delicato ha senza dubbio un indiscutibile valore, ma – come ho avuto modo di spiegare nei miei sette minuti di audizione alla Camera dei Deputati e ho ampiamente scritto soprattutto negli ultimi mesi – il varo dell’Agenzia avrebbe dovuto farsi precedere da una inequivocabile definizione del “chi-faceva-cosa-prima-adesso-cosa-andrà-a-fare”. La temuta rottamazione delle articolazioni e degli organismi preesistenti ha messo in allarme chi conosce le dinamiche correlate a certi stravolgimenti burocratici, ma sembrava il prezzo da pagare per la centralizzazione delle competenze in materia.
A sedare ogni preoccupazione è fortunatamente intervenuto il Prefetto Gabrielli, “dominus” del settore in veste di Sottosegretario con delega ai Servizi Segreti, che – secondo quel che ha battuto LaPresse alle 22 e 29 del 6 Agosto – ha chiarito che la nuova Agenzia “non assorbirà le competenze della Polizia postale” e che sia Intelligence sia Difesa manterranno le loro funzioni in questo campo.
Chi nota l’immutabilità dello scenario si rallegra per la fortunatamente sfiorata collisione tra i transatlantici istituzionali, ma non resiste a chiedersi un inevitabile “ma allora l’Agenzia cosa farà?”
Gabrielli, immaginando la formulazione di un simile quesito, ha spiegato nell’intervista al TG1 ripresa da La Presse che “la nuova agenzia varata dal governo servirà a innalzare il livello di sicurezza” e ha sottolineato che “contribuirà a creare quel sistema resiliente che è la precondizione per gestire gli attacchi ai servizi informatici e sarà un pezzo di un sistema più complesso”.
Ho sempre creduto che le parole siano importanti (per citare Nanni Moretti, ma forse è opinione di quelli nati come noi il 19 agosto) e che una loro attenta lettura consenta di apprezzarne le sfumature.
Il Prefetto e Sottosegretario Gabrielli, che – avendo tra l’altro guidato il SISDE, la Protezione Civile e la Polizia di Stato – non manca certo di esperienza in fatto di entità strategiche del Paese, con il suo “contribuirà a creare” fa comprendere che l’Agenzia non sarà la sola (“contribuirà”) ad occuparsi di una problematica per la quale il “creare” è indizio che ancora non c’è nulla nonostante è dai tempi del Governo Monti (con un decreto del 2013) si parli di “perimetro cibernetico” e di altre cose del genere. Grazie a Gabrielli si apprende che il “sistema resiliente” in questione è solo “la precondizione per gestire gli attacchi informatici”.
Dobbiamo ancora creare la “precondizione”? E in tutti questi anni cos’ha fatto il Dipartimento per le Informazioni per la Sicurezza che ne aveva specifica competenza ad occuparsi della faccenda? Chi al DIS doveva farlo?
Se sul fronte cyber Intelligence, Forze Armate e Polizia di Stato continueranno a fare il loro mestiere, potranno mai trasferire le loro risorse migliori alla neonata Agenzia? Quindi chi per anni ha fatto egregiamente il proprio lavoro in divisa o con la “barba finta” non potrà accedere ad un incarico retribuito con la remunerazione della Banca d’Italia invece che con il non entusiasmante stipendio da poliziotto o maresciallo? Oppure, riconoscendo il valore dei meritevoli (vabbè che siamo in Italia, ma può succedere che quelli bravi vengano premiati…) si mutileranno le funzionalità e l’operatività delle organizzazioni che devono proseguire la loro missione istituzionale a difesa del cittadino? I ranghi dell’Agenzia saranno pertanto riservati a chi dice o fa credere di essere un esperto, magari confidando in qualche benevola recensione della stampa o più facilmente trovando la raccomandazione giusta?
Le domande si potrebbero susseguire in una implacabile grandinata. Lasciatemene ancora due soltanto.
Se si tratta di “contribuire a creare quel sistema resiliente” (in cui anche l’Italia produttiva avrà il suo ruolo), c’è davvero bisogno di 300 persone superpagate (e 800 quando la “macchina” andrà a regime) e di una nuova entità che impiegherà almeno qualche mese a muovere i suoi primi passi? Non bastava un manipolo di esperti in gamba, in grado di affiancare il Governo nelle scelte, capaci di coordinare gli sforzi pubblici e privati nel settore, pronti a lavorare nel giro di qualche giorno?