Michele è l’ultimo di una lunga e interminabile serie, il secondo di questa settimana.
La mattina del 4 novembre si è alzato presto.
Giornata importante quella della Festa delle Forze Armate, piena di cerimonie e pubbliche celebrazioni. Lo sanno tutti. Michele però sa qualcosa di più. Qualcosa che forse non ha confidato, che non ha saputo spiegare, che non ha avuto il coraggio di tirare fuori, di cui nessuno è stato capace di accorgersi e di domandargli il banale e spesso di rito “Tutto bene?”
Giornata drammatica il 4 novembre. Per lui, per la famiglia, per chi lo conosceva, per chi gli voleva bene.
Michele deve partecipare ad uno degli eventi commemorativi ma ha ben chiaro che lo schieramento avrà un posto vuoto.
Arriva al Ponte di San Vito a Ragusa e lì spicca il volo verso il cielo.
Non si conoscono le ragioni di quel gesto estremo e qualunque ne sia stata la radice non bastano le lacrime a sedare la rabbia che istintivamente fa urlare un tanto naturale quanto inutile “perché?”.
A dire il vero i “perché” sono più di uno. Non interessa soltanto la ragione del disperato salto nel vuoto, ma anche e soprattutto il motivo per il quale nessuno in ufficio (colleghi e superiori) si sia reso conto del disagio che stava tracimando e si accingeva a travolgere Michele…
Nel 1993 Michele è stato uno dei miei collaboratori. Faceva l’autista al Segretariato Generale del Ministero delle Finanze, quando io ero nello staff dell’indimenticabile Gianni Billia.
Fresco di corso alla Scuola Allievi Finanzieri, era solerte e disciplinato, forse poco espansivo (la poca esperienza fa esser timidi) ma certo non imperscrutabile. Era la mascotte di quella piccola unità “in divisa” nella pancia “civile” del Ministero, coccolato e simpaticamente sfottuto con l’affettuoso nomignolo di “Posalaquaglia” per la sua disponibilità a svolgere qualunque incarico gli venisse assegnato.
Mi è difficile credere che Michele sia riuscito a blindare il suo malessere al punto che nessuno lo potesse percepire.
Ho fatto il comandante, l’ho fatto pretendendo dai miei “ragazzi” l’impossibile, facendo per loro tutto quel che era nelle mie possibilità e qualche volta pure di più. Mi bastava guardarli negli occhi per capire se qualcosa non andava e non potevo assolutamente permettermi che ci fossero preoccupazioni o problemi, quasi mi pesasse la responsabilità di esser capace di dar loro una mano. Ero convinto (e lo sono tuttora) che il sentirsi chiamare “Comandante” fosse la più onerosa delle soddisfazioni. E’ una parola che – a mia volta – ho riservato ad una striminzita manciata di miei superiori meritevoli di un così gravoso appellativo, chiamando tutti gli altri con il “signor” seguito dal grado da loro rivestito. “Comandante” bisogna meritarselo e pochi ne hanno davvero diritto.
Comprendo sia difficile farsi carico dei “casini” degli altri, ma è proprio lì che sta la differenza tra un “Comandante” e un “superiore”. I superiori si dimenticano al primo cambio di incarico, i Comandanti – quei pochi – restano impressi nell’anima perché il loro cuore era capace di ospitare le paure, le difficoltà e i dolori di chi è alle dipendenze.
Michele è morto a due giorni di distanza di Francesco Saverio, maresciallo ordinario eufemisticamente “trovato senza vita” a Lodi. In comune non solo il doloroso epilogo, ma anche il 1991. Era l’anno di arruolamento di Michele, quello di nascita del giovane collega sottufficiale suicidatosi in Lombardia.
In comune hanno anche il messaggio a ciclostile con cui il Comando di appartenenza introduce con il consueto “A preliminare informazione si rende noto che…” e si conclude con la frase di rito “Sono in corso le procedure per attivare il supporto psicologico nei confronti dei familiari”.
In alcuni casi la solerzia degli incaricati alla redazione del “radiomessaggio” è tale da far sì che siano informate le “Superiori Gerarchie” prima dei genitori, come è successo con Francesco Saverio dove si legge che il Comandante Provinciale “sta contattando la famiglia del militare che risulta vivere a Napoli”…
Quel messaggio rimbalza spesso sulle chat dei gruppi di finanzieri che adoperano WhatsApp e il poveretto di turno ottiene finalmente quei 30 secondi di attenzione che magari avrebbe voluto nei giorni precedenti il drammatico togliersi la vita. Il suo nome, accompagnato al numero di matricola, per un istante diventa famigliare anche a chi non lo ha mai conosciuto, nome che chi lo aveva di fronte tutti i giorni probabilmente non abbinava ad un volto, ad una vita o ad un problema che meritava un briciolo di attenzione.
Ad ottobre del 2018 scrissi di queste cose in un mio pezzo su Il Fatto Quotidiano a ridosso della tragica scomparsa di un mio amico, il Colonnello Massimiliano Giua. Il titolo conteneva una domanda: “Suicidi in Guardia di Finanza, il malessere è diffuso. Perché?”
A distanza di tre anni quel quesito non ha trovato risposta. A quel “perché” vorrei aggiungere “cosa è stato fatto nel frattempo” oltre al roboante “supporto psicologico nei confronti dei famigliari”?