L’abitudine a vedere miei (ex) colleghi tenere rapporti confidenziali con personaggi della politica o dell’imprenditoria, mi ha sempre portato a pensare banalmente sulla opportunità di certe familiarità e a non stupirmene più. Forse per questa ragione il fatidico o fatale incontro tra Matteo Renzi e Marco Mancini non mi ha mai appassionato.
L’essermi sempre occupato di sicurezza (e non solo di quella cibernetica), però, mi ha spinto a riflettere non su quello che è accaduto (di cui già se ne occupano in troppi) ma su quanto avrebbe potuto verificarsi al variare di qualche semplice ingrediente della vicenda in questione.
I due personaggi per ruolo e trascorsi personali giravano “sotto scorta”, dispositivo di sicurezza ritenuto necessario e formalmente autorizzato per la sussistenza di un pericolo per la loro incolumità.
Chi deve proteggere un soggetto a rischio di aggressione o di attentato lo immagino in costante ricognizione visiva, quasi lo sguardo fosse quello della Luciana Littizzetto che – nello spot di un panno per spolverare – scansiona le superfici rilevando anche invisibili granelli.
La scorta non può sbagliare. Sono quegli uomini a decidere dove piazzarsi, cosa fare e anche cosa far fare a chi è sotto tutela.
Se il comportamento in servizio è quello che ipotizzerebbe anche un semplice appassionato di film polizieschi (e non un addetto ai lavori), viene da porsi una serie di ineludibili quesiti che finora nessuno ha ritenuto di formulare.
Possibile che neanche uno si sia reso conto che c’era una persona che – nessun ostacolo frapposto – stava tranquillamente riprendendo la scena totalizzando (a quel che si legge sulla stampa bene informata) 13 fotografie e 2 filmati con uno smartphone che è facile presumere fosse molto vicino al vetro del finestrino?
I fatti risalgono ad una stagione di restrizioni sanitarie e non ad un esodo estivo con assalto ai servizi igienici in affollatissime piazzole di sosta in autostrada. Difficile immaginare ci fosse da tener d’occhio un pullulare di gente o da distrarsi al passaggio di qualche minigonna inguinale immediatamente in contrasto con l’abbigliamento invernale del resto dell’Italia in quel periodo.
Quindi la prima domanda è infantilmente “perché nessuno delle scorte ha notato qualcosa di strano tra le poche auto a parcheggio?” Aspettavano forse che l’erede dei fratelli Lumiere invitasse a sorridere pronunciando non “cheese” ma un più francofono “fromage”? Non hanno sentito né il ciak né il “buona la prima!”?
Il secondo interrogativo è apparentemente meno realistico, ma non per questo meno suggestivo: “di cosa parleremmo oggi se il clic non fosse stato quello dello scatto fotografico o della registrazione video, ma il rumore del grilletto di un’arma da fuoco opportunamente silenziata?”
Le caratteristiche di quell’area di servizio sono quasi ideali per chi abbia cattive intenzioni. Ci sono fattori che rendono quel posto il meno raccomandabile se la propria sicurezza è costantemente minacciata e se si devono fare quattro chiacchiere con qualcun altro in analoga condizione di pericolo.
C’è un laocoontico intreccio viario che offre – tra l’altro – la possibilità di giungere in un attimo alla statale che porta a Rieti e alle sue diramazioni dove procedere ad un cambio d’auto. La struttura di ristorazione, poi, è a ponte e sovrasta le carreggiate autostradali, consentendo un celere passaggio pedonale dall’altro lato della bretella che collega Roma Nord alla A1 (magari con un rapido travestimento nella toilette, così da ingannare le telecamere di videosorveglianza installate sui piazzali e all’interno degli ambienti chiusi).
Probabilmente esagero o sbaglio. Forse no.