Il giorno 1 febbraio 1893 Notarbartolo giunse alla stazione di Sciara dopo due giorni di viaggio a cavallo. Era partito dalla sua amata tenuta. Qui prese posto in una carrozza di prima classe nel treno diretto a Palermo. Lo scompartimento era vuoto e si sentì sicuro. Scaricò il fucile e lo ripose nella rete per i bagagli coprendolo con il soprabito e la cartucciera. Quando viaggiava in campagna era sempre armato ed era prudentissimo dopo il sequestro del 1882; non si era mai sentito di assalti ai treni in Sicilia e, pertanto, era tranquillo.
La fermata successiva era Termini Imerese dove, poco prima della ripartenza (in ritardo di tredici minuti), salirono due uomini con impermeabile e bombetta. Il vice capo stazione dette il via alla partenza; mentre cercava di salutare un suo amico in una carrozza di prima classe notò un passeggero che definì “dallo sguardo sinistro”, poi dettagliatamente descritto nelle caratteristiche fisiche in sede processuale.
L’autopsia e lo stato dello scompartimento permisero di ricostruire la dinamica dei fatti. Quanto il treno entrò nella galleria tra Termini Imerese e Trabia due uomini lo aggredirono. Uno aveva un pugnale triangolare e l’altro un coltello a lama larga a doppio taglio. Notarbartolo, risvegliatosi, tentò di reagire e difendersi dalle coltellate. Era un uomo grande e grosso. Alcuni fendenti colpirono il sedile ed il poggiatesta. Le grida vennero coperte dal rumore del treno in galleria. Riuscì ad afferrare un coltello e tentò di prendere il fucile posto sulla reticella portabagagli. Ferito all’inguine, uno dei due lo colpì alla mano e squarciò la reticella. Ancora uno dei due lo afferrò mentre l’altro gli inferse quattro coltellate nel petto. In tutto il medico legale contò ventisette coltellate. Perquisirono il corpo alla ricerca di elementi identificativi (orologio di famiglia, biglietti da visita, porto d’armi) ma non scesero nella vicina stazione di Trabia, nascondendosi sotto il finestrino. Ripartito il treno, avvicinarono il corpo allo sportello e lo gettarono all’altezza di un ponte sul fiume Curreri nell’intento di far giungere il corpo in mare. Il cadavere, però, si fermò vicino alla stazione successiva.
Il processo giunse in Corte d’Assise a Milano solo nel 1900, ben sette anni dopo. Era uno scandalo. Per alcuni dei siciliani giunti per testimoniare fu necessario ricorrere ad un interprete.
Era chiaro che lo scopo dell’omicidio non era stato il furto, gli assassini avevano alle spalle una vasta e solida organizzazione, vi erano stati complici tra il personale delle ferrovie ed era emerso un possibile movente riconducibile a corruzione finanziaria e politica. Prima dell’omicidio Notarbartolo un’inchiesta aveva appurato gravi malversazioni nel Banco di Sicilia, avvenute nel periodo in cui alla direzione sedeva il suo successore.
Il denaro della banca era stato utilizzato per sostenere il prezzo delle azioni di una società armatoriale dei Florio (la N.G.I.) mentre erano in corso trattative per l’ottenimento di un appalto da parte dello Stato. Il meccanismo era astuto e semplice; venivano concessi prestiti ad operatori che acquistavano le azioni Florio; le stesse venivano depositate al Banco di Sicilia a garanzia dei prestiti. In violazione della normativa bancaria, i mutuatari rimasero anonimi. Tra costoro figuravano il Governatore del Banco di Sicilia ed Ignazio Florio. Era un modo semplice di arricchimento; quando il valore dei titoli si incrementava i mutuatari uscivano dall’anonimato, davano mandato alla vendita e realizzavano un profitto. Se il valore delle azioni diminuiva, la banca aveva titoli svalutati di anonimi detentori per cui non poteva chiedere alcunché. I mutuatari potevano solo guadagnare e la banca solo perdere. Inutile sottolineare che non pochi erano i sospetti di infiltrazione mafiosa.
Notarbartolo, come Direttore Generale, tentò invano di bloccare l’utilizzo della banca di emissione siciliana come “dispensatore” di favori, fattore che trasformava l’Istituto in un potentissimo strumento per la realizzazione di clientele. Somme rilevanti erano state prestate, ed ovviamente mai recuperate, a ragazzi, mestieranti, defunti e persone inesistenti. Nel 1889 inviò al Governo un rapporto confidenziale nel quale sottolineava le criticità connesse alla gestione del Banco di Sicilia e minacciò le dimissioni nel caso in cui non fossero state accolte le sue richieste di riforma. Il rapporto, sottratto a Roma, comparve in sede di Consiglio di Amministrazione della banca mentre il Notarbartolo era nella capitale. Il Consiglio censurò il suo operato. I sospetti del trafugamento ricaddero sul Palizzolo.