Emerse che già prima dell’identificazione del corpo di Notarbartolo circolavano voci che l’ispiratore dell’omicidio fosse il Palizzolo. Il Procuratore Generale di Palermo, che era propenso a non diffidare da quelle voci, venne trasferito. Un ispettore di Polizia, “agente elettorale” di Palizzolo, tentò di depistare le indagini e venne arrestato in Tribunale a Milano.
Il vice capo stazione, dopo un tormentato interrogatorio, riconobbe l’uomo di cui aveva dato la descrizione (quello “dallo sguardo sinistro”, dettagliatamente descritto nelle caratteristiche fisiche) in Giuseppe Fontana (nato nel 1852), mafioso della cosca di Villabate (prediletta del Palizzolo). L’uomo si rese irreperibile. Solo dopo trattative della Polizia con il principe Mirto, deputato che lo proteggeva e del quale era uomo di fiducia (gestiva proprietà e latifondi del nobile sparse in diverse province dell’isola), si consegnò ma solo dopo aver dettato le sue condizioni. Si fece interrogare ed arrestare in casa del Questore, dove era stato accompagnato con la carrozza del principe, ed ottenne una cella confortevole. Il suo rapporto era con chi lo aveva arrestato, il Questore Ermanno Sangiorgi, non con lo Stato, con il gentiluomo, non con lo sbirro. Sottigliezze di un mafioso che non cede allo Stato ma ad uomo, un avversario da lui rispettato perché aveva agito nei suoi poteri e doveri con onestà investigativa. Ermanno Sangiorgi (1840-1908), Questore di Palermo, elaborò in 31 rapporti (485 pagine manoscritte) un quadro completo della mafia, per la prima volta definita organizzazione criminale, delineandone il modus operandi.
Il 10 gennaio del 1900, essendo stati arrestati il Palizzolo ed il Fontana, il processo venne sospeso. Palizzolo si candidò alle elezioni del giugno successivo per ottenere l’immunità parlamentare e tornare nella sua Palermo a gestire gli “affari”. I suoi amici, compresi i Florio, si impegnarono per la sua elezione ma il candidato governativo lo sconfisse. Il Procuratore Generale di Palermo sosteneva che le prove erano inconsistenti per un processo ma la pressione della Monarchia lo indusse a rivedere la sua posizione. Definì le prove “lievi”.
Il secondo processo si svolse a Bologna. Palizzolo parlò per due giorni con atteggiamenti teatrali, dipingendosi una vittima. Molti politici si astennero dal testimoniare in suo favore non volendo spendere la loro credibilità a sostegno di un uomo ormai considerato un impostore. Il Fontana, asciutto nella deposizione, disse che quel giorno era in Tunisia (dove si sospettava fosse attiva una cosca in piena regola). Alcuni testimoni ritrattarono contraddicendosi in modo penoso.
Dopo undici mesi di processo, era la sera del 30 luglio 1902, la giuria si ritirò per la formulazione del verdetto che emise circa due ore dopo. Ambedue vennero riconosciuti colpevoli e condannati a trenta anni: Palizzolo come mandante e Fontana come esecutore materiale. La folla plaudì i giurati e gli avvocati della difesa vennero coperti di fischi. A Palermo, il giorno dopo, comparvero manifesti con la scritta “la città è in lutto”, probabilmente opera della mafia. Il quotidiano “L’Ora” della famiglia Florio espresse perplessità sulla sentenza. Il “Times” plaudì al coraggio di fare giustizia atteso che, in base alle testimonianze ed alle prove, vi sarebbero stati elementi per concedere il beneficio del dubbio. La stampa italiana fu unanime nel sostenere che un duro colpo era stato inferto alla mafia, ai suoi protettori e ad un certo potere politico.
In Sicilia si crearono dei comitati “Pro Sicilia” che esprimevano la “pubblica indignazione” per la condanna di Palizzolo, spacciandola per un attacco alla Sicilia. Sicuramente alcune parti della stampa non erano state dolci con la Sicilia ed il Meridione ma la condanna non era un giudizio sociologico od antropologico. Probabilmente vi era dietro la politica conservatrice isolana che era in minoranza in una Italia liberale.