Se fossi un criminale informatico, mi offenderei – a nome mio personale e di tutta la categoria – nel vedermi appioppato un comportamento tecnicamente di basso profilo e a distanza siderale dalle capacità che mi sono proprie.
Ieri c’è stata l’ennesima gragnola di ciottoli virtuali che non hanno certo lapidato i sistemi informatici presi di mira. La “sassaiola” che ha permesso ai giornali di titolare che il nostro Paese era bersaglio dell’ennesimo assalto è un evento insignificante in uno scenario che – ci auguriamo non si manifesti – potrebbe davvero profilarsi apocalittico.
E’ qui che si consuma lo scempio. I briganti hi-tech prendono di mira il computer del “proto” che pubblica il lancio d’agenzia e alle 21.15 trafiggono impietosamente le pagine ipertestuali dell’ANSA.
Titolo, occhiello e persino il nome del file piazzato online parlano di una sorprendente “Italia russofona”, inaspettata porzione del nostro territorio dove anziché prevalere una forma dialettale locale o un idioma storico retaggio di pregresse migrazioni, dominazioni o contiguità geografiche, si dialoga solo con la lingua di Mosca.
La presunta “russofobia” (l’aver paura di Putin & C.) si tramuta nella “russofonia” (il parlare e lo scrivere in russo) nella totale indifferenza dei lettori che probabilmente hanno immaginato una inspiegabile ostilità degli hacker nei confronti dell’ “Italia che russa” e un odio viscerale nei riguardi di chi la notte turba il sonno del/della consorte…
ANSA rimedia alle 9.44 di stamane reindirizzando il vecchio link e riproponendo il lancio nella sua versione corretta e vanificando gli sforzi dei pirati….
Tutto è bene quel che finisce bene.
🙂
Veniamo ai fatti.
Nel pomeriggio di mercoledì 22 febbraio, molti siti web di aziende e istituzioni sono risultati irraggiungibili per un attacco DDOS (Distributed Denial of Service) che avrebbe ostruito le vie telematiche di accesso a quelle risorse normalmente fruibili via Internet.
Non voglio denigrare alcun importante ente governativo etichettando come di nessuna rilevanza l’episodio, ma non credo che qualcuno si sia lagnato di non aver potuto leggere del Simposio storico a Firenze per il Centenario dell’Aeronautica o dell’attracco a Taranto della nave San Marco.
Il blocco delle vetrine pubbliche e private nei viali della Rete ha in realtà sollevato un vibrante coro di solenni “Me ne frego”, espressione tornata in auge e di cui forse io stesso sto abusando avendola impiegata proprio qui qualche giorno fa.
Ho ben presente il rintraccio di ormai estinti combattenti rimasti nella giungla a difendere isole giapponesi a dispetto di una guerra finita da decenni. Per questa ragione capisco lo stupore di chi ha vissuto fino ad oggi sul pianeta Papalla o semplicemente nel deserto del Gobi in assenza di opportunità di informazione, ma insisto nel ribadire che quel che è capitato non ha nulla di eccezionale e non è cosa nuova.
Mi rendo conto di rovinare alla classe politica e al mondo della poco informata informazione il mistero degli attacchi DDOS e mi sembra di essere il genitore sadico che spezza i sogni del figliolo confidandogli senza mezzi termini che Babbo Natale non esiste.
Questo genere di aggressione è vecchio di trent’anni. Quindi, sembrerà strano, ma tutti hanno avuto sei lustri di tempo per organizzarsi ad evitare problemi in tal senso, invece di “lustrarsi” in convegni, congressi e workshop dove millantavano capacità operative, precauzioni inossidabili e sostanziale imperturbabilità.
Non sto a ripetermi sul banale funzionamento della metodologia DDOS e rinvio a quel che ho scritto in tante altre occasioni, ad esempio al mio pezzo su Il Fatto Quotidiano dal titolo “Catastrofico che i sistemi istituzionali non prevedano misure contro i disturbatori” del dicembre scorso.
L’enfasi, che ha eutrofizzato le piccole e rade nubi nel cielo di Internet facendole descrivere come un tornado devastante, serve unicamente a plaudire ad una sedicente capacità di reazione dinanzi ad un invisibile ma temibile nemico. Serve a supportare la narrazione epica che lascia immaginare scontri titanici quando invece si assiste a commoventi scaramucce da teatro delle marionette.
Serve a mostrare muscoli in una conclamata atrofia culturale, organizzativa e tecnologica di cui i cittadini sono costretti a pagare il prezzo. Serve, secondo le malelingue, a giustificare l’esistenza di una salvifica Agenzia Cyber e ad accelerare l’assunzione (naturalmente senza interferenza di ipotetici sponsor politici o industriali) dei suoi futuri dipendenti, destinati a diventare addirittura 800, tutti con la stellare remunerazione a livello della “Banca d’Italia”.