Deve stupirci più l’obbligo di disinstallare una applicazione demenziale oppure il fatto che qualcuno l’avesse scaricata e resa operativa sul PC dell’ufficio o sullo smartphone di servizio?
Deve lasciarci di stucco il fatto che i responsabili della sicurezza informatica non si siano mai accorti che gli strumenti erano stati avvelenati da un software pericolosissimo oppure la circostanza che i vari funzionari e dirigenti abbiano tollerato che i dipendenti applicassero le poche risorse “intellettuali” perdendo il loro tempo nella visione di “clip” che istantaneamente certificavano l’idiozia dello spettatore?
Deve preoccuparci di più l’irresponsabilità di chi si è fatto spiare fino ad oggi o il dover ricorrere alle “maniere forti” con cui l’Unione Europea – invece di legiferare sulle locuste da infilare nei nostri sandwich – cerca di difendere quel che resta di segreto, riservato o semplicemente critico nel patrimonio informativo pubblico?
Il provvedimento che ha calamitato l’attenzione universale è la sconfortante pagella che spetta alla collettività continentale, referto in cui i “debiti” formativi sono talmente evidenti da non far sperare in un taumaturgico CEPU che consenta alla politica e al management pubblico e privato di recuperare gli anni perduti.
Tik Tok è notoriamente una applicazione “State sponsored”, ovvero incentivata da una Autorità governativa perché coadiuvante nel perseguimento di obiettivi ad ampio spettro nel quadro di un progetto di supremazia. Sembrano parole grosse, roba da “complottisti” dell’ultim’ora, ma in realtà siamo dinanzi alla elementare applicazione della ragione, della cultura geopolitica e del buonsenso al vivere quotidiano.
Ci troviamo in una Nazione in cui persino il servizio pubblico televisivo diffonde, impunito, contenuti discutibili e quindi tralasciamo ogni considerazione legata alla volontà cinese o araba di depauperare la cultura degli “occidentali” con una progressiva ipnosi digitale o con il semplice far sprofondare nella fruizione di poco edificanti opportunità di intrattenimento. Parliamo piuttosto di scopi ben più concreti ed immediati.
Se un Paese vuole guadagnare in termini di capacità produttiva (non solo industriale) la miglior soluzione è rallentare quella di chi è in potenziale competizione. Riuscire a far perdere tempo a chi lavora o studia sui computer o con il tablet o lo smartphone è un’ottima tattica. Si è cominciato con il “porno gratuito”, quello che ha consentito l’affermazione di Internet anche tra chi era disinteressato a certe “novità” operative già vent’anni prima senza aver mai raccolto passione e consenso sufficienti per scatenare la permeazione planetaria. Nel rispetto del principio fisico secondo il quale la capacità di traino di un pelo pubico è superiore a quella di una vigorosa coppia di buoi, l’erogazione di immagini, video e finanche servizi a luci rosse ha rappresentato un modello efficace per instradare i popoli a servirsi di certe tecnologie fino a quel momento ritenuti ostili e difficilmente praticabili.
La riduzione della potenza lavorativa (qualcuno parla anche di quella della vista) nessuno è mai andato a calcolarla, ma c’è stata. Eccome.
In ufficio può rivelarsi azzardato passare le ore a rimirare performance acrobatiche che mortificano il Kamasutra e pertanto c’è chi ha pensato a qualcosa di più soft ed apparentemente innocuo.
I cinesi hanno saputo veicolare un social media capace di approdare su qualunque dispositivo elettronico e di guadagnarsi la preferenza accordata da un sempre più vasto ed insospettabile pubblico. Il fondamento del successo dell’operazione è stato l’aver virtualizzato il “barzellettiere” che in ogni ufficio, fabbrica o scuola ha sempre goduto della simpatia di colleghi e compagni per il saperne ogni giorno “una nuova”. Automatizzare il perdere tempo in modo spensierato è stato vincente (e purtroppo il terreno si è mostrato più fertile del previsto).
L’applicazione non si limita a consentire la visione di filmati ebeti, che al limite rimbecilliscono gli utenti. Le istruzioni contenute all’interno del programmino sono – a voler semplificare – la versione software di una microspia.
Finalmente qualcuno si è reso conto della pericolosità di TikTok. Ed è legittimo chiedersi perché ci sia voluto tutto questo tempo per accorgersene, dove fossero i guru dell’intelligence e i superconsulenti delle Istituzioni, cosa facessero in attesa che qualcuno prendesse l’iniziativa, cosa non sia successo dopo la vox clamans in deserto dei pericoli per i bambini e così via. Le domande potrebbero proseguire, impietose ed inutili. Chi è chiamato a rispondere creerà gruppi di lavoro e coacervi di sedicenti esperti, forse cercherà su Google qualcosa con cui replicare, confiderà nel trascorrere del tempo e nel sopraggiungere di nuove angosce che prenderanno il posto di quelle attuali facendole precipitare nel propizio dimenticatoio.