Lo ritenevo immortale e invece il Signore ce l’ha portato via. Qualche giorno fa il Covid, quello che tanti considerano una suggestione e che altri disegnano come la provocazione di un complotto farmaceutico, ha fermato il respiro di un giovanotto finito in ospedale per una questione ortopedica e uscito dopo pochi giorni con un fardello virale caricato nel nosocomio.
Carlo aveva un cognome, Sarzana. A voler esser precisi ne aveva anche una appendice, di Sant’Ippolito, senza aver necessità di blasoni lui che di nobiltà aveva anzi tutto quella d’animo.
Era in particolare un ragazzino, a dispetto di Anagrafe e acciacchi. Non un ragazzino qualunque, ma uno ideale per la penna di Antoine de Saint-Exupéry, e non solo perché avevano un “santo” in comune…
Ho avuto la fortuna di conoscerlo nel 1989, ma è come mi avesse tenuto in grembo.
A lui devo molto del mio percorso professionale perchè il suo esempio è stato fondamentale per indirizzare tante scelte. Mi ha fatto capire che non bisogna mollare mai, che si deve continuare a dispetto di chi non crede o si prende beffa della strada intrapresa, che non va dimenticato che il proprio orizzonte non deve confondersi con quello limitato ed omologato degli altri, che bisogna inseguire i propri sogni e soprattutto raggiungerli.
Carlo Sarzana è quello che negli anni sessanta, quando gli strumenti tecnologici erano enormi templi fatti di valvole e di schede perforate e chi se ne occupava indossava camici bianchi quasi fossero i paramenti dei Grandi Sacerdoti, ha cominciato dottamente a scrivere di reati che potevano sfruttare quella che all’epoca era la mitologica “elaborazione dati”. E’ lui che per la prima volta ha abbinato il termine “cosiddetti” all’espressione oggi consueta (e forse già desueta) “computer crimes”.
Ribelle, nonostante l’austerità del suo ruolo. Forse per questo non ho faticato a prenderlo come riferimento. Corretto e leale fino all’autolesionismo. Probabilmente questa la visione del vero “uomo dello Stato” che mi è piaciuta e di cui non ho faticato a vederne fin da subito il prezzo che sarebbe toccato pagare.
Tra le mille cose che ha saputo scrivere e che editori coraggiosi hanno pubblicato mi piace ricordare il suo “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le cose non dette e quelle non fatte” uscito nella primavera del 2017 e alla cui presentazione ho avuto l’onore di sedere al tavolo dei relatori nella Sala della Regina della Camera dei Deputati.
Magistrato nel mirino delle Brigate Rosse all’inizio degli anni Ottanta, Carlo arriva ad essere protagonista di un famoso “volantino” in cui viene indicato come “il Giudice Sarzana, pregiudicato in libertà provvisoria”.
Carlo ha ribadito quel che mi aveva insegnato mio padre. A non avere paura.
E non è il semplice sprezzo del pericolo, l’ardimento o chissà quale altra connotazione che potrebbe calzare al “Miles gloriosus”. Chi vuole cambiare le cose che non vanno (e, purtroppo, non sempre ci riesce) non deve avere paura semplicemente di fare il proprio dovere, di dire quel che pensa, di manifestare i propri propositi, di portare a termine il lavoro che gli è stato assegnato. Tutto questo anche quando si matura la consapevolezza che quel che si sta facendo non piace a “chi sta sopra” e ancor meno a “chi sta in alto”, non verrà perdonato e influirà pericolosamente sulla propria carriera.
Con lui se ne va un pezzo di storia di questo Paese, oggi ricco di improvvisati patrioti che la storia non conoscono o che addirittura la vogliono riscrivere ispirati da un Orwell che non hanno mai letto.
Chi ora blatera a vanvera di cybersecurity e di criminalità digitale almeno per un giorno resti in silenzio. Ci ha lasciato un grande Maestro che non merita di sentire l’eco dei ciarlatani che pontificano dai loro immeritati scranni e poltrone.