Senza timore di esagerare possiamo affermare che in Italia, e forse nel mondo, esistano due macrocategorie di soggetti: quelli che quando una cosa non la sanno se la studiano e quelli invece che quando una cosa non la sanno…te la spiegano.
Personalmente mi onoro di appartenere alla prima categoria il che, considerando la vastità delle cose che non so, mi è costato sempre tantissima fatica e grande esercizio di umiltà.
Con l’avanzare degli anni però il desiderio strisciante di provare un’ebbrezza unica discettando di qualcosa che non conosco affatto è divenuto incontenibile.
Fortunatamente tale insana pulsione è mitigata dal timore di fare danni e quindi per questo mio azzardatissimo esordio scelgo di tenermi lontano dalla medicina, dalla biologia, dalla fisica o dall’astronomia optando per un tema di cui so ancor meno, ma tutto sommato non letale: il calcio.
Per dimostrare il mio pieno titolo di ignorante in materia fornirò alcuni spunti:
- A) non conosco i nomi né le società di appartenenza di nessuno dei calciatori della Nazionale Italiana;
- B) meno che mai conosco i nomi dei giocatori o degli allenatori delle squadre del campionato italiano: so solo chi è Mourinho perché ogni tanto sclera e litiga con qualcuno.
A mitigare parzialmente questa mia abissale incompetenza, posso esibire la conoscenza delle formazioni di tutte le squadre italiane ed estere, nazionali incluse, degli anni 1966-1970 perché facevo la raccolta delle figurine Panini (sfido chiunque a ricordare chi fossero Stacchini o Magnusson).
Per quanto riguarda la pratica personale la situazione se possibile è ancor più critica.
Ovviamente da ragazzino ho provato a cimentarmi in questo gioco, anche perché all’epoca non è che ci fosse una gran scelta, ma proprio perché lo praticavano tutti il livello era piuttosto alto il che faceva risaltare ancor più nettamente la mia inettitudine.
I miei coetanei, infatti, militavano quasi tutti nelle blasonate squadre giovanili che allora abbondavano (Pontida, Romulea, Olimpia, Tevere Roma, ecc) e pertanto quando venivano a tirare due calci sul campetto parrocchiale esprimevano virtuosismi per me inarrivabili.
La consuetudine prevedeva che i due più forti (eh, si…allora si poteva ammettere che qualcuno fosse più bravo e gli altri lo riconoscevano senza dover essere affidati ad uno psicoterapeuta infantile) facessero la “conta” scegliendo i componenti delle due squadre.
Spesso si era in numero dispari e quindi si faceva l’ultima conta “palla e porta o scarto” per decidere a chi andasse il giocatore in più e a chi la scelta del campo e della battuta di inizio.
Considerando che giocavamo in campi improvvisati, spesso in pendenza, la scelta della porta non era così banale e ca va sans dire io ero puntualmente lo “scarto”.
Altrettanto puntualmente chi vinceva la conta preferiva prendere “palla e porta” e disputare quindi la partita con un giocatore in meno piuttosto che avere in squadra il sottoscritto.
Anche in questo caso niente psicoterapeuta infantile, anzi!
Ero felicissimo che quelli bravi, comunque, mi facessero giocare invece di dirmi semplicemente che non c’era posto e pertanto non mi sentivo affatto mortificato né dalla situazione né dalla conseguente penosa prestazione che avrei espresso.
Dopo questa doverosa attestazione di incompetenza, veniamo ai giorni nostri.
Resto convinto che il calcio, con qualche eccezione, sia tanto divertente da giocare quanto noioso da guardare.
Nella mia personale classifica lo ritengo secondo solo al cricket e ammiro sinceramente coloro che riescono a restare incollati ad una sedia per più di un’ora e mezza guardando una partita di calcio che a volte termina zero a zero.
Spulciando un po’ di statistiche apprendo peraltro che al di là del mio personale ed irrilevante convincimento il cricket, da me indicato come benchmark, sia ritenuto noiosissimo persino nel paese in cui è stato inventato (l’Inghilterra) ma nonostante questo resta il secondo sport più praticato al mondo dopo il calcio.
Ma il mio obiettivo non è individuare una correlazione tra l’appeal del calcio ed il numero dei suoi estimatori, quanto focalizzare alcune peculiarità che appaiono poco comprensibili agli occhi del profano quale mi ritengo.
Il primo aspetto riguarda le dinamiche di relazione con l’arbitro. Credo infatti che in nessun altro sport ci sia una così sistematica contestazione dell’operato arbitrale.
Ogni volta che l’arbitro fischia anche il più plateale dei falli, il calciatore autore dello stesso regolarmente alza gli occhi al cielo e si guarda intorno come a dire: “ma ce l’hai con me?”
Quindi il messaggio che filtra è che l’arbitro, più o meno in buona fede, sbaglia almeno il 99% delle sue valutazioni, il che è gaussianamente insostenibile.
Questo fa sì che spesso il filo conduttore della partita non sia più il confrontarsi agonisticamente per affermarsi in una prova sportiva, bensì quello delle ingiustizie che hanno determinato la sconfitta del perdente.
Abbiamo visto in più di un’occasione come tale messaggio, in un contesto surriscaldato come quello di uno stadio, possa accendere gli animi fino a generare disordini a volte gravi.
E chi ne è protagonista, grazie a questa dinamica, non si percepisce più come un teppista, bensì come un cavaliere senza macchia e senza paura che sta onorevolmente tentando di porre rimedio ad una grave ingiustizia, destinata altrimenti a restare impunita.
Credo risulti evidente l’impatto altamente diseducativo di questi comportamenti su di una platea così vasta e variegata come quella che ruota intorno al mondo del calcio, soprattutto sui soggetti più giovani.
Sarà un caso, ma i miei compagni di allora, calciatori a livello agonistico, erano anche quelli che reagivano negando qualunque addebito di responsabilità a seguito, per esempio, di un richiamo degli insegnanti anche in presenza di prove oggettive ed inconfutabili delle loro mancanze.
Altra peculiarità pressoché esclusiva del calcio, strettamente connessa a quella appena evidenziata, è la teatrale simulazione di danni fisici irreversibili ad ogni contatto con l’avversario.
Il calciatore che cade raramente si rialza subito: molto più spesso si rotola rantolando sul prato fino all’arrivo dei soccorsi.
Se corrispondesse ad un danno reale la metà di ciò che viene manifestato con smorfie e contorcimenti, il malcapitato sarebbe non solo impossibilitato a continuare la sua carriera sportiva, ma anche a deambulare senza supporti fino al supermercato per fare la spesa.
Invece, salvo casi fortunatamente rarissimi, dopo tanta straziante sofferenza l’eroico atleta stoicamente si rialza e riprende a correre più veloce che pria!
Anche queste pantomime accendono nel pubblico, o almeno in una parte di esso, sacri furori vendicativi contro l’odiato avversario (ormai diventato nemico) reo di aver vigliaccamente attentato all’incolumità del proprio beniamino.
Churchill, del resto, diceva che gli Italiani andavano alla partita di calcio come in guerra ed in guerra come alla partita di calcio…
Peccato che il primo episodio di violenza da stadio si sia verificato proprio in Inghilterra nel 1885, prima quindi che questo sport venisse importato in Italia e che il termine “hooligan” non abbia un corrispettivo nella lingua italiana se non nella ben più generica definizione di “teppista”.
Tant’è che già agli albori si definiva il calcio uno sport per gentiluomini giocato da galeotti, mentre il rugby uno sport per galeotti giocato da gentiluomini.
Il rimedio a queste perniciose situazioni sarebbe semplice: basterebbe ad esempio decretare l’espulsione immediata di quel giocatore che contesti l’operato arbitrale o costringere fuori dal campo per 10 minuti chi, apparentemente infortunato, si rotoli lungamente sull’erba.
Una rapida panoramica su altri sport, ancorché limitata dalla mia scarsissima esperienza, sembrerebbe evidenziare a prima vista situazioni del tutto diverse.
Non mi soffermo sul pugilato che conosco bene ed adoro, pur reputandolo del tutto anacronistico.
Ma riuscite a immaginare un pugile che si getti spontaneamente a terra esagerando l’effetto del colpo subito?
Vi assicuro che avviene l’esatto contrario e a volta si mascherano gli effetti di micidiali tranvate per evitare che l’arbitro possa sospendere l’incontro.
O vogliamo parlare del rugby, dove il durissimo scontro fisico è l’anima del gioco e quando qualcuno resta a terra c’è da preoccuparsi perché vuol dire che si è fatto veramente male?
Potrei andare avanti a lungo citando basket, tennis, atletica, pallanuoto, dove le contestazioni dell’operato dell’arbitro sono minime, ma poco aggiungerei a quanto scritto finora.
Credo inoltre di aver già fornito una sufficiente attestazione dell’ignoranza che avevo garantito in premessa.
Se varrà anche in questo caso il triste assioma che in Italia spesso l’ignoranza viene premiata…il successo di questo articolo è assicurato.