La civiltà e il suo progresso si fondano sulla cultura e la scuola ne è l’indispensabile basamento.
Proprio per questo motivo l’insegnamento non è un mestiere, ma una missione. I Governi, qualunque ne sia stato il colore, hanno confidato nella vocazione dei docenti ritenendo che la loro remunerazione fosse secondaria rispetto le enormi soddisfazioni morali del trasferire “virtute e conoscenza” alle future generazioni.
La società ha insegnato che l’importanza di un lavoro e le capacità di chi lo svolge sono proporzionali solo alla retribuzione, distorcendo così il valore dell’educazione e della formazione il cui rilievo sotto quel profilo è addirittura scandaloso.
A cimentarsi nelle aule del Paese si sono avventurati gli insopprimibili entusiasti dell’apostolato didattico e, purtroppo, una schiera di “pocofacenti” pronti ad accontentarsi di un posto pubblico e di uno stipendio. Mentre i primi – incorreggibili – non si piegano nemmeno dinanzi all’evidenza e proseguono imperterriti nell’inseguire il sogno istruttivo, gli altri cercano invece di perpetuare uno stereotipo che indebitamente viene esteso anche a chi getta il cuore al di là dell’ostacolo.
Due episodi recenti costringono ad affrontare un tema spinoso ed inestricabile, ma è sostanziale non cadere nella tentazione muscolare di allargare le braccia testimoniando visivamente il proprio sconforto.
La “destituzione” della professoressa assente per 20 anni su 24 di incarico celebra le quasi nozze d’argento della “macchina dello Stato” con una inefficienza spesso lamentata da chi genericamente adopera il termine “ministeriale” come aggettivo spregiativo. L’arco temporale in questione è rassicurante per chi non abbia alcuna intenzione di fare il proprio dovere e ritenga di non fornire la propria prestazione nella certezza dell’incertezza della pena o quanto meno del momento della sua irrogazione.
In realtà l’ispezione del “MIUR” era durata solo tre giorni e dal 2013 il tempo è quello della giustizia che ha favorito la signora, destinataria di assegnazioni annuali in quanto moglie di un ufficiale della Guardia di Finanza, negli unici quattro mesi consecutivi di attività che sarebbe risultata disattenta “verso gli alunni durante le loro interrogazioni” in quanto intenta a un “uso continuo del cellulare con messaggistica”….
La promozione dei teppisti che avevano sparato a pallini ad una insegnante è forse in ossequio al presunto auspicio del Senatore Fazzolari cui le malelingue avevano attribuito la paternità dell’idea di inserire il tiro a segno nelle materie in aula… Se la “prof” veniva centrata in pieno e abbattuta senza impietose sofferenze, il 9 in condotta poteva tradursi in un 10 e lode nella disciplina “bersaglio mobile” o “armi ad aria compressa”?
I casi in questione sono singoli granelli di sabbia della spiaggia su cui il futuro dell’Italia si è arenato. Come la Sanità, la Scuola ha lasciato grandi spazi all’iniziativa privata (sovente encomiabile, ma spesso deprecabile) al punto da far sparire la parola “Pubblica” che una volta precedeva il termine “Istruzione” nell’indicazione del relativo dicastero. Manovre speculative sulla pelle dei precari hanno deteriorato anche illustri “network” educativi ritenuti storicamente seri ed affidabili, tracciando un solco poco incoraggiante.
Il Ministero oggi è anche quello del “merito”. Se ne attende un segnale. Prima che sia troppo tardi.