Da tempo volevo scrivere la mia storia personale della fanciullezza e gioventù vissuta alla fine della seconda guerra mondiale, i miei studi a Camerino e l’inizio del lavoro; non l’ho mai fatto perché ho pensato non interessasse a nessuno leggerla, ora lo voglio fare. Mi sono reso conto, innanzi tutto che quello che ho vissuto io rappresenta un pezzo di storia reale comune a una grande massa di giovani della mia età, e poi potrebbe essere interessante fare un raffronto con la situazione attuale, alla fanciullezza e gioventù di oggi con pochi se non pochissimi problemi: su come ci si avvia al lavoro e le opportunità offerte dal mercato attuale. Quindi, senza nessuna intenzione di vantarmi o voler ottenere maggiore “visibilità”, cosa di cui me ne frego alla mia età, mi avvio a raccontare.
Ho vissuto la guerra a partire dall’8 settembre 1943, quando avevo 7 anni e tutti gli adulti accanto a me fecero festa perché pensavano che la guerra fosse finita. Ricordo bene quel giorno a Camerino, suonò anche il “campanone” di San Venanzo, mentre la gente urlava e cantava per le strade. Invece fu proprio allora che cominciò la vera guerra per tutti i civili anche senza essere al fronte. Noi in famiglia, poi avevamo due fatti che aggravavano la situazione. Mio fratello, più grande di me di 13 anni, era incappato nel famoso “bando Graziani” del 1944 che richiamava alle armi nella repubblichetta di Salò i giovanissimi di appena 21 anni della classe 1923 e che, approfittando di una licenza per esami, si era dato alla “macchia”. Inoltre un mio zio carabiniere era pure scappato e si era rifugiato a casa nostra. Vi lascio immaginare come vivevamo tranquilli con i tedeschi sotto casa. Questo da un lato, mio fratello e mio zio se venivano presi sarebbero stati fucilati. Dal punto di vista economico dico solo che pativamo la fame. “Durante la guerra avevamo una tale fame che quando aprivamo la credenza c’erano dentro i topi che piangevano”. Gianni Magni.
Mi è sempre rimasto in mente: quando la mamma mi portava a raccogliere le spighe di grano che restavano sparse nei campi dopo la mietitura e che i contadini ci permettevano di farlo. Confesso ora che qualche volta per aumentare il mio mucchietto di grano raccolto, staccavo qualche spiga dai covoni; non ho mai capito se mamma se ne accorgesse e facesse finta di niente per non rimproverarmi. Altro ricordo della fame: babbo diceva che la carne non gli piaceva per lasciare la poca che c’era a noi ragazzi e lui si riempiva la pancia di minestroni a cui aggiungeva un mucchio di pezzetti di pane che chiamava i “motivi d’appello”. Passata lo buriana mi accorsi che la carne gli piaceva e come! E veniamo alla scuola e alla ricerca di un posto di lavoro. Finite le scuole medie su suggerimento dei miei genitori che aspiravano ad avere un figlio laureato, passai al liceo, ma ci restai molto poco. Dopo solo qualche mese di IV ginnasio mi trasferii di mia iniziativa all’Istituto Tecnico per geometri. Mi rendevo conto che sarebbe stato un sacrificio troppo grande per la famiglia tenersi sulle spalle me per ulteriori 5 anni. Comunque non mi sono mai pentito di questa scelta, allora si riusciva a fare una vita decente con una normale carriera anche se non laureati. Io poi sono stato particolarmente fortunato perché fu l’azienda per cui lavoravo (l’Olivetti) a farmi fare certamente più che l’università, mi fece aggiornare continuamente con qualche decina di corsi in Italia e all’estero. Per quanto riguarda il lavoro devo introdurre una figura che mi è stata molto vicina a Camerino prima e dopo il lavoro: don Antonio Bittarelli. Infatti mi ha instradato alla scrittura di articoli facendomi collaborare all’Appennino Camerte e presentandomi a Beppe De Rosa direttore di locali giornali. Con De Rosa ho mantenuto un buon rapporto di amicizia tanto che quando ho pubblicato una raccolta della mia collaborazione decennale con “omelie.org” ha scritto per me la prefazione che qui sotto riporto in parte.
“La stragrande maggioranza di coloro che leggeranno queste pagine non ha mai sentito parlare di don Antonio Bittarelli (Sarnano 1918 – Camerino 2003), un prete che fu un singolare impasto di fede, di apertura conciliare già prima del Concilio, di alta tensione culturale, di giornalismo divulgativo, di politica vivacemente democratica. Dolce nei modi, forte nella sostanza. Era lui che mi parlava con una certa frequenza di Gian Paolo Di Raimondo, uno dei tanti giovani passati per il suo studio – un laico rispettoso come Alberto Sensini, recentemente scomparso, lo definiva lo studiolo di Bernanos – che si era distinto nell’associazionismo cattolico e che, emigrato da Camerino come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei, era diventato di lì a poco una specie di mito in una materia della quale allora si sapeva quasi nulla e che lasciava aperti ampi spazi all’immaginazione dei profani, l’informatica .,,,, Terminati gli studi, (Gian Paolo) avrebbe voluto restare, com’è naturale per tutti i giovani che qui hanno coltivato sogni e speranze. Ma negli anni Cinquanta del ’900 il posto tra quelle mura sembrava riservato solo a pochi eccezionalmente fortunati – chiamiamoli così – o a chi non nutriva ambizioni. Gian Paolo non era né l’uno né l’altro e fu così che si allontanò dalla sua terra. Come sempre accade, fu un distacco non privo di un certo risentimento, ma Di Raimondo la sua fortuna riuscì a costruirla altrove. I primi tempi non sembravano ricolmi di gratitudine nei confronti della città che lasciava da parte del giovane che partiva. Era solo apparenza, legge naturale destinata a dissolversi con la solidità della vita che sarebbe avanzata. La sua carriera cresceva, le pagine di storia industriale italiana che Adriano Olivetti stava scrivendo lo affascinavano e lo sfogliarle e l’esserne partecipe lo ricolmava di gratitudine e lo spronava. Il lavoro rendeva Gian Paolo cosmopolita, sempre a dover prendere possesso di una nuova sede e a ripristinare lì quello che aveva lasciato altrove. Le radici camerinesi non tardarono a riaffiorare. Quelle pragmatiche mai disgiunte da un sottofondo umanistico che gli aveva fatto conoscere Mario Ortolani e che l’esperienza olivettiana esaltava, quelle di solidarietà, di giustizia sociale, di amore verso il prossimo che lo riconducevano a don Antonio Bittarelli. In fondo in questa diade, ideale e concreta insieme, si possono riconoscere la personalità e l’azione di Gian Paolo. Sempre presente nel mondo dell’industria avanzata (oggi la chiamerebbero 4.0), sempre attivo per contribuire con le proprie mani a una società migliore che preferisce dare anziché pretendere dagli ultimi”.
Come fui assunto in Olivetti Bull? Siccome a Camerino, dove sarei restato volentieri, non si poteva nemmeno pensare che avrei potuto lavorare, né c’era la speranza che l’allora classe politica che governava la città lavorasse per mitigare l’esodo di laureati e diplomati. Ricordo una frase dell’allora segretario della Democrazia Cristiana locale che rispondeva a chi gli presentava l’enormità della migrazione dei migliori cervelli formatosi in una città universitaria rispondeva: “meglio così, più se ne vanno più stiamo bene noi che restiamo”. Meglio parlare d’altro. Delle decine di domande fatte, una risposta m’illuminò la strada, quella dell’Olivetti che m’invitava ad un colloquio Milano per una borsa di studio. Partii e incontrai, pensate, Furio Colombo che allora faceva il selezionatore per Olivetti. Finito il colloquio, Colombo mi disse che mi avrebbe segnalato a quei “pazzi” dell’Olivetti Bull. Passata una mesata fui nuovamente chiamato a Milano il giorno di Ferragosto del 1959 a palazzo uffici di via Clerici. Arrivai stralunato in una città deserta, presentandomi come un pellegrino in un palazzo altrettanto deserto. Non c’era anima viva. La guardia all’ingresso mi indicò la strada per raggiungere la persona che mi stava aspettando. Dopo un viaggio solitario in ascensore e la camminata nei lunghi corridoi raggiunsi finalmente l’ufficio. Al mio affacciarmi un gran vocione m’invitò a sedermi dinanzi alla sua scrivania. Era Elserino Piol, che, dopo un colloquio di circa mezz’ora, mi disse che mi avrebbe ingaggiato con una borsa di studio per fare un corso, al termine del quale sarei stato assunto in modo definitivo. E così fu. Nell’inverno dello stesso anno Piol mi comunicò che sarei dovuto andare ad avviare l’Esattoria Comunale di Messina, liquidandomi con una indimenticabile battuta: “così non dovrai metterti la maglia di lana”. Voglio terminare con ancora un ultimo fatto che coinvolge la gran brava persona di don Antonio. Un anno dopo l’assunzione in Olivetti Bull l’Università di Camerino concesse a Enrico Mattei, grande marchigiano, la laurea honoris causa in chimica e lui si fece dare, bontà sua, una lista di laureati e diplomati da assumere in ENI, don Antonio tramite l’Arcivescovo inserì anche il mio nome. Quando tornai a Camerino per una vacanza e me lo comunicò ovviamente mi feci cancellare, ma mi fece un gran piacere constatare che a Camerino qualcuno mi voleva bene.