Nicola Gratteri ha spiegato l’aggressività tecnologica del crimine organizzato e la necessità di disporre di risorse qualificate per contrastare chi si è impermeabilizzato elettronicamente a qualsivoglia conato investigativo che possa turbare il quieto vivere di chi delinque.
Il suo fervore mi ha commosso. La spontaneità con cui ha espresso le sue fondate preoccupazioni mi ha intenerito.
Ascoltando stralci del suo intenso intervento dinanzi alla platea della kermesse “Sud e Futuri” ho pensato allo sfalsamento temporale delle buone intenzioni e alla imperturbabilità di chi governa di fronte ad emergenze istituzionali divenute nel frattempo insostenibili.
Cominciamo con il disallineamento cronologico del voler fare qualcosa, quasi a voler ruotare il coltello nella piaga del non esserci riusciti quando ancora c’era modo di agire e magari collocarsi addirittura in vantaggio nei confronti dei “cattivi”.
Nel 1988 un giovane capitano della GdF viene trasferito all’Ufficio Informatica del Comando Generale. Forse annoiato dalla staticità del contesto e da una certa cecità di alcuni superiori diretti, comincia a segnalare per via gerarchica l’urgenza di dotare la “Regia Guardia” di un team capace di supportare i reparti territoriali nell’eseguire le verifiche tributarie esaminando non più vecchi registri contabili ma i computer utilizzati da aziende e professionisti. Il passaggio dalla “carta” ai “dischi magnetici” aveva rallentato la vivacità delle pattuglie tradizionali e la documentazione del “nero” non finiva più nello scarico della toilette ma semplicemente cancellata…
L’anno seguente, alla Scuola Tecnica della Polizia in quel di Castro Pretorio a Roma, quel capitano accompagna l’allora Tenente Colonnello Umberto Fava a tenere un intervento in materia di tecniche investigative. L’ufficiale superiore ad un certo punto chiede allo sbarazzino collega di mostrare come era possibile individuare e recuperare file cancellati, la cui ricostruzione poteva essere determinante per le indagini che PS, CC o GdF stessero svolgendo.
Il buon esito della dimostrazione lascia incuriositi i presenti ma – ad onor del vero – nessuno si turba più di tanto. Nessuno vuole credere ad una permeazione capillare degli strumenti informatici, ad una loro diffusione globale che avrebbe cambiato il “campo di battaglia”.
Quel capitano, emulo di Cassandra, inizia la mortificante opera di redazione di “appunti” alle Superiori Gerarchie per sottoporre a debita valutazione il tema del computer crime e la sua riconducibilità anche a settori diversi dalla banale pirateria informatica, come – ad esempio – la già intravedibile a quel tempo ingegnerizzazione della criminalità finanziaria.
Nel 1995 l’ufficiale – con l’esperto di comunicazione Roberto Di Nunzio e con il tenente colonnello “trasmettitore” Vincenzo Merola – avvia alla Scuola del SISDE i primi corsi di technointelligence e l’Italia è il primo Paese ad esplorare il cyberspazio per acquisire informazioni.
Nel 1999 un suo intervento all’Università di Trento mette in evidenza il tema del riciclaggio online e il testo viene pubblicato da “Gnosis – Rivista di Intelligence” del Servizio segreto “interno” (qui il link a quello studio ora sul sito istituzionale dell’AISI).
Tanti pezzi di carta si sono susseguiti ed ammucchiati, ogni volta arricchiti di dettagliate considerazioni ed argomentati spunti, per dodici lunghi anni. Non era mai il momento giusto, c’erano sempre cose più urgenti ed importanti da trattare. Ma il capitano, nel frattempo diventato maggiore e poi tenente colonnello, non desiste pur avendo trovato ben più conveniente collocazione distaccato all’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione dove guadagna molto di più ed ha posizione gerarchica da “dirigente generale”. I sogni non hanno tasche. L’interesse a fare qualcosa di buono val più di indennità integrative e retribuzioni più consistenti. Se Parigi valeva bene una Messa, la realizzazione e il comando di una unità specializzata supera il perdere metà dello stipendio…
Si deve accelerare perché i banditi fanno progressi…
Finalmente diventa “Ispettore per i reparti speciali della Guardia di Finanza” un generale fighissimo, colto, dinamico, visionario. Era uno dei pionieri dell’aviazione in fiamme gialle: solo un pilota elicotterista degli anni cinquanta poteva capire che era necessario guardare al futuro. Pietro Sgarlata si impunta e decide di diventare lo sponsor del progetto ormai corposamente strutturato. Grazie alla sua insistenza l’8 Gennaio 2001 nasce il Gruppo Anticrimine Tecnologico e viene concesso a quel testardo ufficiale di prenderne il comando con la facoltà – mai ripetuta – di scegliersi chi in giro per l’Italia poteva giocare una simile partita…
La storia del GAT fino al 2012 è il susseguirsi di sperimentazioni investigative e di successi invidiabili. E’ la dimostrazione che non vale più il cinematografico “inseguite quella macchina” ma invece “rallentiamo, passeranno di qui” che segna un vantaggio competitivo enorme.
“Lo sceriffo del Web”, come veniva chiamato il comandante del GAT, colpevole di aver svolto tra l’altro l’indagine sulle slot machine che per la Procura della Corte dei Conti arriva a totalizzare la scoperta di un danno erariale di 90 miliardi di euro, viene destinato alla frequenza di un corso al Centro Alti Studi per la Difesa (dove teneva conferenze da sedici anni) e per rispetto della propria dignità a 52 anni e qualche mese si congeda.
La corsa del GAT cambia ritmo. Il reparto viene potenziato (le risorse chieste per anni improvvisamente diventano disponibili!) ma si eclissa.
Gli “sbirri-hacker” lasciano il posto a validi tecnologi. E la corsa si ferma.
Questa lunga ed estenuante narrazione ha due obiettivi.
Il primo è quello di far capire che abbiamo colpevolmente perso oltre trent’anni e, anzi, abbiamo buttato via quel che di meglio si poteva ed è stato fatto. Secondo scopo è suggerire al dottor Gratteri una correzione di rotta.
Non servono ingegneri, ma sbirri con capacità tecniche. Un ingegnere – proprio per razionalità e forma mentis – non potrà mai essere un investigatore né avrà mai modo di proporre qualcosa che coincide con quello che ha in mente un pubblico ministero. Uno sbirro – abituato a lavorare per strada e a star sveglio 48 ore di fila – può invece imparare a smanettare e a cimentarsi su questo mutevole fronte.
Diciamola meglio.
Servono tutte e due le razze in questione, ma devono divenire simbiotiche e punzecchiarsi vicendevolmente per acquisire duttilità nell’affrontare contesti sconosciuti e per offrire all’autorità giudiziaria strumenti e “teste” indispensabili per vincere…