Se c’è un tema dibattuto in Italia nell’ultimo mese, è quello della legittimità ed opportunità, per membri di corpi dello Stato, di manifestare pubblicamente le proprie convinzioni politiche e sociali.
Il primo caso è stato quello del generale Vannacci, inserito dall’Esercito tra i più alti gradi dirigenti dell’organizzazione, e che, per formazione, trascorsi operativi e leadership, può essere considerato tra i migliori ufficiali italiani. Invocando il proprio diritto costituzionale ad esprimere il proprio pensiero sotto forma di un libro, ha dato la stura ad uno sciame polemico che ha raggiunto vette al calor bianco – oltre a diventare istantaneamente il saggista più letto in un Paese che non legge neanche le etichette al supermercato.
Le reazioni verso le sue posizioni e riflessioni sull’ambiente politico e sociale hanno causato un’alzata di scudi da parte di non condivide il suo pensiero, la richiesta – poi attuata – di rimozione dall’incarico, e addirittura la destituzione dal grado e l’incriminazione per spergiuro. Si è argomentato che i militari in servizio non possono esprimere liberamente il proprio pensiero perché soggetti a servire la Repubblica senza pregiudizio verso alcuna convinzione. Per chi lo sostiene, un’argomentazione quanto meno discutibile, nel momento in cui si pensa che un militare – pur se non compia atti contro la Repubblica o organi della medesima – debba rinunciare a pensare in ragione del proprio giuramento di fedeltà.
Si può peraltro comprendere come chi abbia l’abitudine a formarsi delle opinioni, e ad usare le parole come arma senza rispondere delle conseguenze delle stesse, veda come una potenziale minaccia un militare che essendo del pari abile a formarsi delle opinioni e ad usare le parole, un’arma per sostenere le medesime ce l’abbia davvero. E si può comprendere, lasciando a ciascuno la libera riflessione sul merito, come la sanzione sia stata irrogata senza che – per sua stessa ammissione – il ministro della Difesa avesse letto il libro del generale, e nonostante ciò avesse bollato come farneticazioni le sue argomentazioni.
Il secondo caso, di questi giorni, è stato quello del magistrato Iolanda Apostolico, sorpresa da un video a inveire contro le forze dell’ordine in occasione delle manifestazioni legate alla vicenda della nave Diciotti e del suo carico di migranti. Di nuovo, un comportamento legittimo per qualunque cittadino italiano, cui la Costituzione conferisce il diritto inalienabile alla libera assemblea ed espressione del pensiero.
C’è tuttavia chi ritiene che tale diritto non potesse essere esercitato da un magistrato in servizio, in quanto quest’ultimo è dotato di armi diverse da quelle dei militari, ma potenzialmente altrettanto letali: quelle di decidere della vita, dell’onorabilità, della libertà dei cittadini. Anche in questo caso, si può comprendere che chi avesse delle posizioni opposte a quelle espresse dalla cittadina Iolanda Apostolico potrebbe sentirsi non completamente sereno nel sottoporsi al suo giudizio in quanto magistrato. Ed è legittimo che ci sia chi richiede la sua rimozione dall’incarico per questo motivo, sebbene, differentemente da quanto avvenuto con Vannacci, non vi sia stata alcuna pronuncia da parte del ministro della Giustizia, né tanto meno dal presidente della Repubblica, capo del CSM. Anzi, a volerla dire tutta, l’Associazione Nazionale Magistrati ha difeso a spada tratto la Apostolico – un po’ come se il COCER avesse difeso Vannacci.
Non volendo entrare nel merito dell’una o dell’altra delle due vicende, né esprimere posizioni a favore o contro l’una o l’altra, pare opportuno rifugiarsi nell’età classica e ricordare tempi in cui – se pur con l’inevitabile patina dorata dei miti – una diversa civiltà e senso dello Stato governava gli uomini.
Cesare, già assurto alla gloria di Roma come generale vittorioso, era arrivato alla carica di pontifex maximus – la più alta carica della religione romana – da poco più di due anni, quando uno scandalo ne mise in dubbio l’autorevolezza. Durante le celebrazioni per la Bona Dea, figura cardine della religiosità romana, lasciò la casa insieme agli altri uomini, poiché i riti venivano celebrati solo dalle donne. L’occasione fu sfruttata dall’amante di sua moglie Pompea Silla, tale Clodio, per introdursi in casa approfittando del viso imberbe che gli consentì di travestirsi da donna.
Fu tuttavia riconosciuto come uomo da un’ancella, e il disonore – non per il tradimento, ma per l’offesa fatta alla dea – lo minacciò da vicino. Cesare ripudiò immediatamente la moglie, e durante il processo fu messo alle strette da un tribuno della plebe, che gli chiese il perché del ripudio, se nella sua casa non era successo alcunché di sconveniente. La sua risposta rimase eterna nella memoria dei posteri: Perché la moglie di Cesare non deve essere neppure sfiorata dal sospetto.
Periodicamente, nel nostro disgraziato Paese si mette in dubbio la valenza del liceo classico e della lettura delle opere lasciate dagli antichi per il mondo moderno. Quanto appare invece pregnante la lezione lasciata da Cesare – che non era un santo – per i moderni uomini di Stato. Quando non si è la moglie di Cesare, ma Cesare stesso, e si ha potere di vita e di morte attraverso l’uso delle armi o quello delle leggi, non si può consentire che vi sia alcun sospetto sulla propria dirittura ed imparzialità. Non perché in quanto militari o magistrati non si sia autorizzati a pensare o ad avere delle opinioni, ma perché l’ossequio alla Bona Dea della pubblica salute non consente altro.
E se si vuole ricordare un esempio ancora più vicino, che serva da guida per chiunque ricopra una carica di servizio ai cittadini, basti richiamare alla memoria la foto di Aldo Moro in spiaggia, vestito di tutto punto come per una sessione alla Camera. Perché il servitore dello Stato non smette mai di esserlo, poiché non rappresenta sé stesso o le proprie convinzioni, ma incarna la volontà e la fiducia dei cittadini.
Serviranno queste poche righe ad avere una vita pubblica più rispettosa dei principi primi della civile convivenza?
Spes ultima dea.