Un paio di settimane orsono Microsoft ha annunciato un collaborazione con il colosso della diagnostica per immagini Paige, volto alla creazione di un modello di intelligenza artificiale (AI) dedicato alla diagnosi del cancro.
Con immensa approssimazione ma con corretto concetto, i modelli di AI sono costituiti da sistemi di elaborazione che, grazie ad un bagaglio di informazioni di cui sono stati nutriti e sulle quali si “allenano” continuamente, sono in grado di realizzare correlazioni con tempistiche nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’operatore umano.
Nel caso specifico, l’AI in questione sta immagazzinando una massa senza precedenti di immagini correlate alle patologie tumorali, letteralmente miliardi di immagini, e si sta addestrando al riconoscimento sia delle forme più comuni, sia di forme rare o rarissime delle patologie oncologiche, operando milioni di confronti e relazioni per accrescere il proprio bagaglio di conoscenza. Ne aveva accennato anche Ferdinando Scala qualche tempo fa su queste colonne.
La crisi delle professioni mediche e (lo vediamo purtroppo nel nostro Paese) le ambasce in cui si sta dibattendo la Sanità, sia pubblica che privata, determinano la “mancanza di tempo” dovuta alla carenza di personale e l’ovvia conseguenza del ritardo nell’erogazione delle prestazioni (ben visibile ai cittadini), ma soprattutto nel rallentamento dell’attività clinica e diagnostica svolta dai patologi clinici, che costituisce presupposto fondamentale per gli atti medici e di terapia.
La figura del patologo, che lavora “dietro le quinte”, è estremamente importante soprattutto nel campo delle malattie oncologiche: Thomas Fuchs (co-fondatore e chief scientist di Paige) usa affermare “Non hai il cancro se non lo dice il patologo”. Ed è una verità, a dispetto del fatto che i processi di lavoro di questi professionisti non siano cambiati sensibilmente negli ultimi 150 anni: il patologo esamina al microscopio un campione di tessuto e può rilevare la presenza della malattia. Ad occhio. Tutto perfetto e ben collaudato, salvo che qualcosa non sfugga all’esame umano.
Lo scopo del progetto Paige è quello di automatizzare il workflow lavorativo dei patologi, migliorandone efficienza ed accuratezza con l’aiuto della tecnologia e del machine learning.
Banalmente sembrerebbe solo un lavoro di digitalizzazione fotografica, che sostituisce il microscopio con monitor d’ausilio alla diagnostica. Il lavoro sottostante però, al momento, consente la segnalazione immediata della presenza di patologie oncologiche mammarie, del colon e della prostata, al solo apparire dell’immagine sullo schermo del medico. La FDA (Food and Drug Administration) americana ha già approvato il sistema di visualizzazione diagnostica avanzata, supportata dall’ambiente AI dell’azienda.
Si tratta del primo sistema di diagnosi secondaria approvato dall’Ente regolatore statunitense: una pietra miliare nel progetto, ma ora i dirigenti si trovano ad affrontare il problema dal lato dei costi e risorse necessari per lo storage. La memorizzazione di una singola immagine richiede oltre un Gigabyte di spazio, e si può ben immaginare quale sia il tasso di crescita di un sistema che debba immagazzinare e, soprattutto, gestire una tale quantità di dati. Giusto per fare un paragone, l’attuale patrimonio di immagini di Paige è circa 10 volte quello in possesso di Netflix, comprendendo tutti i materiali in linea sulla piattaforma.
Questo immenso patrimonio (la fortuna di Paige è che sia uno spin-off tecnologico del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York) va gestito, e per questo motivo l’azienda si è rivolta a Microsoft per un ausilio tecnico: non tanto per le logiche e la parte clinica, ma soprattutto per i problemi di storage e di potenza computazionale necessaria per il progetto.
Il modello si sta sviluppando anche negli aspetti predittivi: non solo quindi confronto tra immagini, ma anche analisi sul patrimonio genomico e sui markers dei pazienti, per consentire un intervento diagnostico precoce e mirato, sviluppando algoritmi e tecniche di individuazione sempre più performanti.
Lo scopo ovviamente non è la sostituzione del patologo clinico con un computer: la AI diventa uno strumento, come lo stetoscopio o la macchina a raggi X, in mano all’uomo-medico. La centralità dell’esperienza umana sarà quindi amplificata dall’uso di questi avanzati metodi.
E il fine ultimo sarà di ridurre i tempi di attesa per le diagnosi: per molti pazienti, la differenza tra due giorni e due settimane può significare la vita.
E, da ultimo, più ci si allontana dai grandi centri di ricerca verso i più piccoli presidi clinici di provincia, maggiormente sarà apprezzato il valore aggiunto di questa soluzione, con la mira finale alla “democrazia sanitaria”, che possa consentire lo stesso livello prestazionale per ogni paziente, ovunque esso si trovi.
Incrociamo le dita!