All’alba del 21 luglio del 1969 facevo la spola dal terrazzo alla TV che trasmetteva in diretta le immagini dell’impresa Apollo 11. Gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin stavano per passeggiare la prima volta sul suolo lunare.
La luna era piena. Il cielo terso. Il mangiadischi suonava Non credere di Mina. Fissavo la Luna, sdraiato sul pavimento del terrazzo ancora tiepido per il sole del giorno. Cercavo di scorgere l’arrivo della sonda lunare. E intanto tifavo per Lei, la Luna. Lo confesso, ora. Speravo quasi che l’impresa fallisse, perché temevo che da quel giorno, come un obelisco, si sarebbe visto un bel razzo proprio lì nel centro della Luna. La Luna dei poeti e degli innamorati. La Luna da sempre ammirata da tutti gli occhi del mondo. Non fu così, per fortuna.
La frase piena di fascino pronunciata da Armstrong: “questo è un piccolo passo per un uomo, ma un gigantesco balzo per l’umanità”, ci emozionò tutti. E la conquista dello spazio rappresentò “la materializzazione di un sogno”, proprio come aveva scritto anni prima Carlo Emilio Gadda. Lo stesso sogno di Jules Verne (Dalla Terra alla Luna, 1895), Stanley Kubrick (2001: Odissea nello spazio), Yuri Gagarin (Protagonista del primo volo in orbita, 12 aprile 1961), Valentina Tereskova (Prima donna a volare nello spazio, 16-19 giugno 1963), e di tanti, tanti altri.
Le imprese spaziali costituivano una sfida e insieme una meta in cui l’uomo poteva intravvedere una speranza per l’umanità. Così scriveva Primo Levi, aggiungendo: “Davanti a quest’ultima testimonianza di coraggio e d’ingegno non si prova soltanto ammirazione e solidarietà distaccata: in qualche modo, e non del tutto ingiustificato, ognuno di noi se ne sente partecipe (..) anche il più estraneo al colossale travaglio dei voli cosmici sente ricadere sull’intero genere umano e quindi anche su di sé, una parcella di merito e ne esce rivalutato”.
Sentiamo ancora ricadere su di noi “una parcella di merito” leggendo che qualche settimana fa, l’agenzia spaziale privata SpaceX, del magnate americano Elon Musk, ha effettuato un nuovo collaudo della sua navicella di punta: l’astronave Starship. Il progetto prevede, in collaborazione con la Nasa, la produzione di un veicolo spaziale, di grandi dimensioni e multiuso, in grado di riportare, a distanza di oltre mezzo secolo, l’uomo sulla Luna. E prevede successivamente di colonizzare Marte.
L’astronave – montata sul razzo più potente mai realizzato nella storia delle esplorazioni spaziali – ha superato i 100 chilometri di altitudine, ovvero quella quota che rappresenta il confine tra la Terra e lo spazio. Purtroppo per tutti noi, la permanenza fuori dal nostro pianeta è durata meno di 10 minuti, prima della distruzione del veicolo.
Il lancio è stato il secondo tentativo di far volare la Starship, dopo un tentativo avvenuto ad aprile, anch’esso sfortunatamente concluso con un fallimento, dopo soli 4 minuti dal decollo. Le fasi di entrambi i lanci – a differenza ahimè dell’allunaggio del 21 luglio 1969 – sono state trasmesse a pagamento sui canali tv e web dell’agenzia spaziale privata SpaceX.
“Una parcella di merito” sentiamo ricadere su tutti noi grazie anche alla Lockheed Martin, un’impresa anch’essa statunitense attiva nei settori dell’ingegneria aerospaziale e della difesa, che, qualche giorno fa, si è aggiudicata un contratto per lo sviluppo di una tecnologia basata sulla propulsione elettrica nucleare, ritenuta in grado di generare molta più energia degli attuali pannelli solari e consentire così una durata operativa prolungata.
Si tratta di un’opzione tecnologica che potrebbe cambiare radicalmente il modo in cui esploriamo il cosmo in quanto, non richiedendo un’esposizione costante alla luce solare, permetterebbe missioni nello spazio più profondo.
Alberto Moravia chiudeva così i tre reportage dagli Stati Uniti scritti per L’Espresso a luglio del 1969: A che serve la Luna (13 luglio), Cittadini della Luna (20 luglio) e Il cielo è vecchio (27 luglio):
“Nel momento stesso in cui il razzo riprende la sua marcia di ritorno, ci rendiamo conto di aver assistito ad un evento al tempo stesso tecnologico e religioso. Ad una solennità insieme scientifica e rituale. E il rito è consistito nell’esser testimoni della quasi magica trasformazione del cielo in spazio (…). Però i significati storici della parola “cielo” rimangono, per così dire, incorporati nella parola “spazio”. Sì, l’atmosfera circonda la Terra e oltre l’atmosfera c’è il vuoto cosmico e l’atmosfera è composta da troposfera, stratosfera, mesosfera, omosfera, eterosfera, esosfera. Sì, la Terra dista dalla Luna un numero ben preciso di chilometri e così da Marte, da Venere, dagli altri sistemi solari della nostra galassia, dalle quasar e dalle pulsar. Ma al tempo stesso per la folla e, probabilmente, in maniera più inconsapevole anche per gli stessi tecnologi, questo spazio di misure così esatte rimane tuttora il vecchio cielo nel quale erano localizzati i vecchi paradisi, i vecchi limbi, i vecchi mondi celesti delle religioni e della poesia (…).”
Moravia, cinquant’anni fa, ha posto l’accento sui pericoli della sfida spaziale: la proiezione della tecnologia in un mondo simbolico rischia di privarci del fascino della Luna, del suo significato “religioso” e “rituale”.
La diffidenza nei confronti dei programmi spaziali e della stessa impresa lunare era emersa già nel 1967 in una lettera inviata da Anna Maria Ortese (premio Strega di quell’anno) a Italo Calvino: “Caro Calvino, non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio ecc., io non provi tristezza e fastidio e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché. Anch’io, come altri esseri umani, sono portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cos’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi un ulteriore equilibrio (…). Ora questo spazio non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà tra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace”.
L’autore delle Cosmi-comiche (1965), nel replicare, aggiungeva: “(…) Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli Stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli. (…)”
A queste incertezze si aggiungeva un’opposizione di natura politica, che contestava i costi dei programmi spaziali, sia americani che sovietici, mettendoli a confronto con bisogni che venivano dichiarati prioritari, primo fra tutti la fame nel mondo. L’impresa lunare era lo specchio “di una civiltà deforme”, “frutto dell’uso capitalistico della scienza”, come si leggeva sulla copertina del giornale “il manifesto” che nel settembre del 1969 pubblicava un lungo articolo dello scienziato e filosofo Marcello Cini, ironicamente intitolato Il satellite della Luna:
“(…) sembra possibile affermare che il programma spaziale non ha messo a punto alcun sottoprodotto che di per sé rappresenti la soluzione di un importante problema aperto nella società contemporanea (…). Il problema della fame del mondo è spesso un pretesto per fare sfoggio di buoni sentimenti. In realtà le misure pratiche che le grandi potenze industriali hanno adottato per affrontare questa vergogna del genere umano non vanno molto al di là delle collette tra gli scolaretti (…). È vero che se si devolvessero le somme investite nelle ricerche spaziali in cibo o beni di consumo elementari, il risultato sarebbe ancora poco più di una goccia nel mare. Tuttavia se si investissero in impianti di produzione dell’acqua per l’agricoltura, il risultato sarebbe assai più consistente (…). Infine se si finanziassero, nella stessa misura del programma spaziale, programmi di ricerca aventi come fine il problema dell’alimentazione (…) è lecito pensare che il problema potrebbe essere avviato a soluzione”.
A distanza di oltre mezzo secolo da quel 21 luglio del 1969, prendiamo atto che quel “piccolo passo per un uomo” non si è rivelato affatto “un gigantesco balzo per l’umanità”. L’uomo non coltiva maggiori speranze di vincere mali persistenti come la fame e la guerra. E da questi altri ne derivano: interi popoli sono costretti a migrare proprio a causa della fame e delle guerre.
“L’uso capitalistico della scienza” a cura delle superpotenze si è trasformato in un uso della scienza al servizio del profitto ad opera di magnati come Musk, che non lascia presagire nulla di buono.
E, mentre spero di non dover pagare un giorno per rivolgere lo sguardo alla Luna, continuo a tifare per Lei mentre alla radio Mengoni canta Due vite: “siamo i soli svegli in tutto l’universo (…) a gridare un po’ di rabbia sopra un tetto (…) se questa è l’ultima canzone e poi la Luna esploderà (…)”.