È vero che il suo nome è difficile da pronunciare, ma anche se ne avesse avuto uno semplicissimo, non sarebbe stato ugualmente ricordato. Invece la sua storia, al pari di quelle di altri eroi dimenticati, è davvero speciale.
Géza Kertész (1894-1945), ungherese colto e preparato, un gigante buono di quasi due metri, intraprese nel 1920 la carriera di calciatore e di allenatore, che si svolse però durante un periodo storicamente difficile sia per i Magiari, che per tutto il resto del mondo, in quanto la seconda Guerra Mondiale impazzava. Ma fu proprio in questo frangente, tra occupazioni naziste e persecuzioni ebraiche, che Géza decise di agire.
Dopo aver giocato nella massima serie e nella nazionale ungherese, nel doppio ruolo di calciatore e di allenatore, nel 1925 si trasferì a Catania, in Italia, dove la presenza di atleti ungheresi in quel periodo era notevole. Come giocatore era bravo ed ebbe dei successi, però era lento, tanto che fu soprannominato lajhár (bradipo); come coach era invece molto valido e stimato, seppur molto esigente (tra le sue squadre, Carrarese, Spezia, Catanzarese, Taranto, Salernitana, Catania e altre).
Introdusse metodi di allenamento innovativi, come la ginnastica svedese, il ritiro prepartita, ed orari rigidi e severi; ma si teneva lontano dalla politica, svolgendo soltanto il suo mestiere di allenatore straniero: nel 1938-39 allenò l’Atalanta, i due anni successivi la Lazio, finché nel 1942 venne convocato per allenare la Roma, quell’anno campione d’Italia.
Praticamente Géza si stabilì in Italia, dove sin da allora si capiva già che il calcio non era solo uno sport, ma una religione, un credo. Infatti durante il ventennio fascista, a Roma si giocarono i mondiali di calcio del 1934, l’Italia vinse le Olimpiadi di Berlino nel 1936 e quelle di Parigi nel 1938, proprio contro l’Ungheria. Ma pur essendo un ottimo professionista, anche se non proprio un pallone d’oro, non è per lo sport che il mister ungherese meriterebbe di essere ricordato. La partita più importante della sua vita Kertész se la giocò in Ungheria, con ben altri compagni di gioco e con una squadra di campioni sconosciuti, veri fuoriclasse.
Allo scoppio delle ostilità, quando il campionato italiano si bloccò, il calciatore tornò a Budapest. Osservando la sua Patria straziata, così come le altre Nazioni belligeranti, nel 1944 Kertész prese contatti con i servizi segreti statunitensi ed entrò nella resistenza ungherese, essendo da sempre fervente nazionalista, insieme al suo collega Tòth, anch’egli ovviamente sconosciuto, e parimenti eroico.
Con una Budapest devastata dai nazisti, con l’intera comunità ebraica serrata nel ghetto e sistematicamente decimata ogni giorno, Kertész ed i suoi compagni crearono una organizzazione clandestina, salvando dalla Gestapo centinaia di ebrei, nascondendoli da amici, presso monasteri, o facendoli espatriare. Addirittura, grazie al suo perfetto tedesco, Géza si travestiva da soldato della Wehrmacht per organizzare le fughe di ebrei dal ghetto di Budapest.
Per puntualizzare, è necessario sottolineare che questi valorosi, consapevoli che potevano essere catturati, torturati, uccisi, rischiavano non solo le loro vite, ma anche quella delle loro famiglie, quest’ultime spesso inconsapevoli delle operazioni segrete dei loro parenti. Si trattava di un ulteriore fardello che questi eroi caricavano sui loro destini.
Per un intero anno il mister calciatore lavora con l’organizzazione. All’inizio del 1945, tutti attendevano il fischio finale di questo campionato mondiale degli orrori. L’Armata Rossa era alle porte di Budapest, ma per Kertész il gioco finì prima: ad appena una settimana dalla liberazione, un delatore lo fece arrestare con i suoi compagni. Prelevato a forza dalla Gestapo, con l’accusa di aver ospitato un ebreo in casa sua, Géza Kertész venne fucilato con loro nel cortile del palazzo reale di Buda il 6 febbraio del 1945. La città fu liberata il 13 febbraio.
Nell’immediato, alla fine del conflitto, il suo eroismo fu riconosciuto dai suoi concittadini, che lo inumarono, come martire della patria, nel cimitero degli eroi di Budapest. Ma tutto fu dimenticato, poco dopo, con l’insediamento dei governi comunisti, che non perdonarono a Kertész il suo credo nazionalista.
Per decenni restò nel dimenticatoio.
Solo negli anni ottanta è stato riconosciuto come Giusto dallo Yad Vashem; invece nel 2015, a Catania, un comitato di cittadini è riuscito a far intitolare una strada a suo nome, per evitare che la sua tomba venisse rimossa dal cimitero degli eroi di Budapest. Di sicuro una piccola targa è più pesante della coscienza di certi individui.