La pandemia di Covid-19 ci aveva costretto a fare un salto nel futuro, costringendoci ad assaporare il fascino del telelavoro e di tante altre opportunità offerte dalla tecnologia.
In pochi hanno pensato di fare tesoro di questa lezione, dimostrando l’esiguità qualitativa che contraddistingue l’odierna classe dirigente pubblica e privata. Qualcuno ha giustamente fatto osservare che molti “smart-workers” se ne stavano beatamente a casa immersi in un soporifero dolce far niente. Nessuno però ha voluto ammettere che, in precedenza, quegli specifici lavoratori non facevano assolutamente nulla anche quando andavano regolarmente in ufficio rubando lo stipendio “in presenza”.
Dalle nostre parti non sono emersi studi ed approfondimenti sull’esperienza in questione e sulle possibili evoluzioni che una architettura di trasporto dati effettivamente veloce e stabile potrebbe garantire se accompagnata dalla disponibilità di strumenti informatici distribuiti e di investimenti nella formazione del personale.
Se ci siamo ispirati al principio “adda passà a nuttata” del grande Eduardo De Filippo in “Napoli Milionaria”, possiamo dire che effettivamente si è fatto giorno e che l’emergenza è finita (o si vuol credere così).
Negli Stati Uniti, invece, il tema è considerato cruciale e una recente ricerca della Federal Reserve Bank of San Francisco sollecita a fare qualche riflessione in proposito.
L’interessante documento sottolinea che nel picco dei contagi oltre il 60% delle giornate lavorative retribuite veniva svolto “da remoto”, rispetto al misero 5% prima della pandemia. Secondo le statistiche d’oltreoceano, a dicembre scorso più o meno il 30% delle giornate “pagate” è stato svolto ancora in modalità remota.
Mentre si discute se il telelavoro potrebbe aumentare o danneggiare la produttività complessiva dell’economia, va detto che nel 2020 la crescita di quella statunitense è aumentata, ma non si considera che ci si è trovati dinanzi ad una “innovazione digitale forzata”.
Non sono somme facili da tirare e i dati aggregati non permettono di riscontrare il reale effetto – positivo o negativo – della pandemia.
Sono tanti i fattori diversi dal telelavoro che potrebbero aver influenzato il ritmo complessivo della crescita della produttività. Le riverberazioni del Covid-19 – non dimentichiamolo – sono anche quelle delle molte aziende costrette ad interrompere la propria attività e a tirar giù la saracinesca.
Sappiamo poi che esistono settori in cui è facile individuare la possibilità di lavorare fuori sede, ma ci sono mestieri e professioni che devono essere eseguite di persona: ogni valutazione del ruolo del lavoro a distanza sulle performance della produttività potrebbe non esser la miglior via per apprezzarne l’utilità.
Vale comunque la pena prendere atto che il passaggio al lavoro remoto e ibrido ha rimodellato la società in cui viviamo.
Il minor tempo trascorso negli spostamenti e la circostanza che alcune persone si siano trasferite fuori città sono due elementi che evidenziano come si sia sfumato il confine tra lavoro e vita domestica.
E’ ovvio che lavorare da remoto può dar luogo ad una riduzione dei costi e ad una migliore allocazione dei talenti in tutte le aree geografiche. E’ altrettanto planare che il lavoro fuori sede rischia di azzoppare l’innovazione perché, riducendo le interazioni in ufficio, ne risentono la generazione e la diffusione di idee.
In medio stat virtus? Il bilanciamento tra vantaggi e controindicazioni forse non è impossibile. Chi ha detto che di ibrido ci debbano essere solo le vetture in circolazione e non anche il lavoro?