L’entusiasmo dilaga. Sono tutti affascinati dalle sbalorditive performance di velocità creativa delle soluzioni di intelligenza artificiale generativa come ChatGPT, Bard e le altre diavolerie che negli ultimi mesi hanno rivoluzionato il modo di interloquire con computer e smartphone.
Al pari degli appassionati di automobilismo che guardano con ammirazione un bolide da competizione che sfreccia a 300 kmh sull’asfalto, chi adopera dispositivi elettronici e chiede loro di fornire quel che lui/lei non sa o non ha studiato o semplicemente non ha voglia di scrivere, rimane incantato dalle risposte che riesce ad ottenere in un batter di ciglia.
Se i fan delle corse in pista sanno che quei veicoli sono dotati di freni e altri sistemi di sicurezza a tutela dei piloti e di chiunque si trovi sulla loro traiettoria, non altrettanto possono sostenere gli innamorati della IA “pret-a-porter”.
Mentre i primi hanno la certezza che chi è al volante non è ubriaco o in preda agli effetti di droghe, questi ultimi non hanno idea di cosa abbia mangiato o bevuto il sistema cui si rivolgono per la soluzione dei loro problemi.
Le piattaforme – oggi largamente di moda – che si prospettano salvifiche per chi in qualunque campo non sa nemmeno da che parte cominciare, basano la loro conoscenza sulle dinamiche di autoapprendimento, consistenti nella lettura, analisi e classificazione di contenuti in larga parte disponibili sulla Rete. La materia prima con cui questi sistemi elaborano il loro prodotto o definiscono il loro comportamento è una sorta di “mangime”, la cui purezza e genuinità è comprensibilmente fondamentale.
L’alimentazione di queste “macchine” condiziona i risultati che vanno a generare e il rischio di “avvelenamento” o di “junk food” (come gli anglofoni chiamano le “porcherie” fagocitate prevalentemente dai giovanissimi) è particolarmente elevato.
L’intelligenza artificiale può nutrirsi di informazioni false, infondate o imprecise, e le va a masticare senza garanzia di aver selezionato con adeguato rigore il fornitore del “cibo” che ingurgita. Non c’è alcuna certezza che sia stata letta l’etichetta del “barattolo” per vederne gli ingredienti o per conoscerne meglio il produttore, il suo ciclo di lavorazione, la sua affidabilità.
La preoccupazione che le vengano date in pasto notizie “fake” è, o dovrebbe essere, abbastanza diffusa. Il timore che le si riempia il bicchiere con litri e litri di “propaganda” è altrettanto ragionevole.
La paura evidente è che determinati sistemi siano “pilotabili” da chi li gestisce, vuoi per interessi diretti, vuoi per soddisfare una economicamente convincente committenza politica, industriale, commerciale.
Oltre all’angoscia che la dieta dell’intelligenza artificiale non escluda il consumo di alimenti adulterati, scaduti o più genericamente dannosi, si va ad aggiungere la circostanza che il materiale sugli scaffali di Internet non è mai di qualità garantita.
Un recente studio condotto dall’Università della California in Santa Barbara e da Amazon (“A Shocking Amount of the Web is Machine Translated: Insights from Multi-Way Parallelism” pubblicato l’11 gennaio 2024) ha portato ad avere evidenza che i contenuti presenti sul web (quelli divorati dall’intelligenza artificiale) sono frutto di traduzioni in inglese di testi e documenti redatti in altre lingue (e poi ritradotti in quella di fruizione degli utenti interessati). La bassa qualità delle traduzioni multidirezionali fa capire che queste sono state realizzate utilizzando la “Machine Translation” (MT) o traduzione automatica che dir si voglia.
Le opportunità dei vari “translator” hanno sconquassato l’orticello presidiato da interpreti e traduttori di mestiere. L’illusione di non aver più bisogno di certificati conoscitori di questa o quella lingua ha eutrofizzato il super ego di chi crede di aver trovato su Internet la possibilità di far da solo senza ausili professionali esterni.
Se ognuno è libero di accontentarsi di traduzioni online, prive di garanzia di affidabilità, inquieta il pensiero che questa diventi la regola e che – anzi – sia la base di partenza di ulteriori contenuti deformati geneticamente da errori originari.