La pubblicazione del rapporto dell’Association of Rape Crisis Centers in Israel (ARCCI) relativa agli atroci crimini commessi da Hamas a seguito dell’attacco del 7 ottobre ha scoperchiato una realtà sconvolgente, portando alla luce atti di violenza sessuale, mutilazioni e umiliazioni di una brutalità inimmaginabile.
Silent Cry – Sexual crimes in the October 7 war
Queste rivelazioni non hanno solo scosso la coscienza internazionale, ma hanno anche innescato un dibattito più ampio sui meccanismi sottostanti che abilitano tali orrori. L’esame di questi crimini, che si configurano come atti contro l’umanità, ci costringe a riflettere sulla psicologia collettiva e sulle dinamiche sociali che alimentano la violenza estrema contro gli altri, in questo caso identificati come gli israeliani.
Il silenzio di certi settori della società, soprattutto di alcuni movimenti femministi che tradizionalmente si levano in difesa dei diritti delle donne, di fronte a tali atrocità pone interrogativi inquietanti. Questa mancanza di condanna rischia di essere interpretata come un segnale di un relativismo antisemita, dove l’impegno contro l’antisemitismo e la violenza sembra vacillare in base alle affiliazioni politiche e ideologiche. La selettività della solidarietà sollevata da questo atteggiamento genera significative preoccupazioni etiche e morali, evidenziando un processo di deumanizzazione dell’altro che facilita la giustificazione interna della violenza.
La narrativa di noi contro loro, profondamente radicata in molte culture, riflette una tendenza a categorizzare il mondo in termini binari, alimentando pregiudizi e ostilità. Questa divisione, tuttavia, non emerge dal nulla ma è il risultato di narrazioni storiche, politiche e sociali che enfatizzano le differenze piuttosto che le somiglianze, contribuendo così a perpetuare un ciclo distruttivo di odio e violenza.
In Italia, il dibattito sull’antisemitismo e le sue manifestazioni contemporanee riflette queste complesse dinamiche psico-sociali. La contrapposizione tra figure come le senatrici Liliana Segre ed Ester Mieli sottolinea le sfide nell’affrontare l’antisemitismo con coerenza e integrità. Segre, sopravvissuta all’Olocausto e impegnata attivamente contro l’odio, rappresenta un faro di resistenza e lotta per i diritti umani. Al contrario, le critiche di Mieli verso l’indifferenza di alcune frange della sinistra rispetto all’antisemitismo sollevano questioni scomode sulla coerenza della condanna dell’odio.
In questo contesto, il ruolo del giornalismo assume una rilevanza cruciale. Di fronte al silenzio di alcuni e alla selettività dell’indignazione di altri, spetta ai media assumere la responsabilità di diffondere un’informazione etica e responsabile. Un’informazione che non si limiti a riportare i fatti, ma che stimoli anche una riflessione critica sulla realtà. Il compito del giornalista è quello di denunciare le ingiustizie e le violenze, contribuendo a un dibattito pubblico illuminato e costruttivo.
La libertà di informare e la libertà di essere correttamente informati sono diritti fondamentali in una società democratica. Il silenzio e la selettività nell’indignazione non fanno che alimentare i cicli di violenza. È necessario, quindi, un impegno costante verso un giornalismo che, oltre a informare, promuova una reale comprensione reciproca e rispetto tra le diverse comunità contribuendo a superare le divisioni, combattendo l’odio e promuovendo la pace. La battaglia per l’umanità e per i diritti fondamentali richiede una partecipazione attiva da parte di tutti, media inclusi, per costruire un futuro in cui la dignità di ogni individuo sia riconosciuta e rispettata, al di là di ogni stereotipo prodotto dalla cecità ideologica.