Forse solo il governo italiano non se n’è accorto, ma siamo in guerra; e non è il primo conflitto che dobbiamo affrontare dalla fine della II Guerra Mondiale, ma le caratteristiche assunte dalle guerre moderne (appunto dal 1945 ai giorni nostri) consentono di fingere la permanenza di uno status di pace che esiste solo nei sogni di una classe politica timorosa ed ideologicamente drogata, che trasmette alla nazione tutta sentimenti di pacifismo anacronistico e fuori luogo.
A parte la “guerra fredda”, che ha avuto enormi ripercussioni sugli assetti politici dei Paesi occidentali, ed ha causato la morte – spesso silenziosa ma non per questo meno gloriosa – di tanti agenti coinvolti nello scontro, le guerre combattute hanno visto l’Italia coprotagonista e non sempre spettatrice, in ragione degli equilibri geopolitici da salvaguardare e delle alleanze, politiche ma anche militari, che impedivano all’Italia di sottrarsi agli impegni internazionali sottoscritti.
Il gioco di prestigio cui si sono dedicate le classi politiche che si sono alternate negli anni alla guida del Paese è stato sostanzialmente quello di oscurare, o almeno annebbiare, la realtà per non spaventare i cittadini.
Le ragioni di tale atteggiamento risiedono nella dolorosa sconfitta nella II Guerra Mondiale (solo in minima parte mitigata dalla Guerra di Liberazione), un conflitto voluto dal fascismo e subìto dalla popolazione; dalla commistione della ideologia pacifista di impronta democristiana e vaticana con quella propagandata dal PCI; dalla necessità di ricostruire – in regime di pace – un Paese devastato dalla guerra mondiale e da quella civile.
Tra i tanti frutti avvelenati di queste scelte politiche va sottolineato lo scollamento tra le Forze Armate e la popolazione, che in tale istituzione – almeno nei primi anni del dopoguerra – identificava un corpo estraneo alla nazione, sia perché ritenuto corresponsabile del conflitto mondiale sia perché avvertito come ancora attraversato da simpatie monarchiche (se non parafasciste).
Solo nel 1982, con la partecipazione alla missione di pace in Libano, le Forze Armate italiane entrano a pieno titolo nel quadro bellico internazionale e, nel conquistarsi la stima ed il rispetto degli alleati (e del popolo libanese), cominciano a recuperare l’attenzione, e la conseguente ammirazione, dei loro connazionali.
Non è un caso che il 1982 sia anche l’anno della riscossa dello Stato contro la lotta armata condotta da formazioni marxiste da un lato e neo fasciste dall’altro, mostrando al mondo le capacità di reazione e di azione del proprio apparato di sicurezza: Forze di Polizia, Servizi di Informazione e Sicurezza, Forze Armate.
Tutte le vicende belliche che hanno visto la partecipazione italiana in campo internazionale sono però state sempre accompagnate da messaggi pacifisti di stampo autoassolutorio trasmessi al pubblico dalle forze di governo, che lasciavano intravedere il timore di essere etichettate come guerrafondaie; alimentando in tal modo il destabilizzante sottotesto che indicava le Forze Armate come strumenti di pace, lontane dalla loro naturale essenza di strumenti di guerra.
Forse retaggio di quella ideologia catto-comunista che impediva di squarciare il velo che copriva la realtà bellica internazionale, tali messaggi confondevano l’opinione pubblica e minavano l’autorevolezza e l’orgoglio dei componenti delle Forze Armate.
Duole ricordare, tra i tanti, gli esempi dei combattimenti sostenuti dai nostri soldati in Somalia, in Iraq, in Afghanistan, sempre accompagnati da velenose polemiche di stampa; ed allarma registrare i commenti ferocemente contrari ai nostri impegni nell’ambito del conflitto russo-ucraino, sempre in nome di un pernicioso pacifismo a senso unico.
La recente reazione del cacciatorpediniere Caio Duilio, che ha abbattuto un drone dei militanti Houthi nel Mar Rosso, ineccepibile sotto il profilo militare, è stata accompagnata dai messaggi ministeriali di “pacificazione”, sottolineando la natura difensiva della missione, quasi a scusarsi di aver debellato una minaccia ad un nostro vascello (peraltro senza aver causato perdite umane, trattandosi di un velivolo a guida remota).
Non è lontana nel tempo l’esperienza sofferta da nostro naviglio commerciale, oggetto di attacchi e sequestri da parte dei pirati somali senza che dai responsabili politici giungesse la “luce verde” ai reparti speciali della Marina Militare che, in pochi minuti, avrebbero neutralizzato le minacce ed evitato agli equipaggi mesi e mesi di sofferenze e angosce per la loro vita.
Il timore di causare vittime innocenti ha così sempre impedito l’attuazione di interventi di forza per liberare gli ostaggi in mano a terroristi e malviventi di ogni risma; ma quando si è trattato di intervenire per liberare due operatori della nostra intelligence, rapiti in Afghanistan dai talebani nel settembre del 2007, è stata autorizzata l’incursione dei reparti speciali britannici che, pur eliminando tutti i componenti del commando terroristico, hanno purtroppo causato la morte di uno dei due ed il ferimento dell’altro elemento e dell’interprete locale che li accompagnava.
Nella conclamata correttezza delle scelte strategiche ed operative, rimane l’amara sensazione che per i servitori dello Stato non sussistano quelle cautele che vengono invece sempre invocate per i “normali” cittadini; il che è perfettamente condivisibile, essendo gli operatori dei Servizi, delle FFA e delle FFP titolari di particolari doveri nei confronti della collettività.
Permane la resistenza dei nostri governanti a chiamare le cose col loro nome: alla guerra come alla guerra, ammoniscono con encomiabile pragmatismo i francesi.
Ci attendono momenti di estrema gravità in campo internazionale, per cui sarebbe auspicabile da parte del nostro mondo politico (forze di maggioranza e di opposizione, ma soprattutto di governo) non già un atteggiamento scioccamente bellicoso bensì un approccio maggiormente aderente alla realtà, anche per non trasmettere un senso di incertezza e di irresponsabilità a chi in prima linea difende in armi la nazione Italia.