Escludo di proposito un eventuale accostamento con il 7 ottobre e la cruenta fratricida emorragia di vite umane che ha innescato. Non ritengo di fare il paragone con il Bataclan o altre analoghe dolorose esperienze.
Il drammatico episodio al teatro Crocus alla periferia di una capitale blindata ha scosso moscoviti (e russi in genere) convinti dell’invulnerabilità di una Nazione che nemmeno Napoleone ed Hitler erano riusciti a colpire al cuore. La stessa sensazione di onnipotenza si era infranta negli Stati Uniti, dove l’esser distanti dagli ordinari scenari di guerra permetteva di contare su una vigilanza planetaria che garantiva con certezza e congruo anticipo di avvistare l’arrivo del nemico.
Nella Grande Russia come negli USA si è dovuto capire – e a caro costo – che un attacco non deve necessariamente sopraggiungere da oltre confine, ma può avere la casella del “Via!” a due passi dall’obiettivo.
Pur con infinita sproporzione nel conteggio delle vittime, l’irruzione armata tra gli spettatori del concerto rock somiglia allo schianto del primo aereo di linea nella Torre Nord del World Trade Center di New York. Augurandoci che non ci sia l’altra delle Twin Towers (e nemmeno il Pentagono), non è affatto da escludere che l’azione terroristica possa avere un seguito temporalmente non distante. Stavolta il “ritmo di colpi” potrebbe essere deliberatamente non così serrato come invece fu in quell’indimenticabile 11 Settembre.
Si ha l’impressione che si voglia dare il tempo al regime di Putin di risollevarsi dopo questo inatteso KO e di alzare la guardia.
Il cervello dell’operazione rivendicata dall’ISIS non ragiona come Tyson e non si affretta ad abbattere l’avversario una o più volte fino a vederlo esanime al tappeto. Sul sanguinante ring c’è un emulo di Cassius Clay, anzi proprio di Muhammad Alì vista l’atmosfera islamizzante. Chi seguiva la boxe del secolo scorso si ricorda quel campione prendersi beffa del pugile che aveva dinanzi. Era il gusto vagamente sadico di dimostrare al pubblico e al mondo l’impotenza del rivale, incapace di approfittare persino degli attimi in cui i guantoni del campione puntavano a terra e il bersaglio era indifeso.
La mancata raffica di attacchi sincroni o ravvicinati può essere il primo boccone di un ricco menu ancorato ad una tutt’altro che dietetica strategia di logoramento. Il timore di un’altra efferata azione impone di blindare i possibili successivi bersagli e rallenta la ricerca di chi ha fatto fuoco sul pubblico del concerto…
Difficile disegnare un epilogo “lineare”. L’imprevidibilità delle prossime mosse fa persino sperare che il terrorismo stavolta metta paura a chi pensava di far tremare e inginocchiare il mondo. Una sorta di rimedio omeopatico…
L’istinto belluino – dominante in questi momenti – purtroppo porta ad inquadrare il drammatico evento come un pericoloso innesco, una sorta di Sarajevo 2.0.
Chi interpreta il ruolo dell’indipendentista bosniaco Gavrilo Princip che uccide Ferdinando Francesco e la moglie Sofia? Un manipolo di miliziani dell’ISIS? Un commando agli ordini di Kiev? Una banda di partigiani russi?
Niente di tutto ciò.
La scintilla potrebbe esser stata provocata dai Servizi Segreti russi, consapevoli che un massacro di tal guisa avrebbe incendiato gli animi, inducendo i connazionali a chiedere una vendetta esemplare. Nessuno potrebbe mai pensare ad una automutilazione di 133 vite innocenti pur di far invocare “Guerra! Guerra! Guerra!”
I guerrafondai da salotto e gli imprenditori dell’industria bellica contano molto sulla fondatezza di una simile ipotesi e ricordano quel 28 giugno di 110 anni fa come la migliore miccia rapida…
Un conflitto mondiale sarebbe l’Apocalisse e può affascinare solo chi non ammette che ci possa essere qualcosa o qualcuno dopo di lui. E non solo politicamente.
Chi ha un Dio, lo preghi.