Il libro ci racconta la “verità” sulla battaglia di Mogadiscio, combattuta il 2 luglio 1993 al checkpoint Pasta, punto di osservazione privilegiato sulla capitale somala. Il checkpoint era denominato “Pasta” dal nome di un vecchio pastificio della Barilla risalente all’epoca coloniale. Per conoscere le “verità” occorre sempre sentire le fonti che hanno vissuto gli episodi, il resto sono racconti più o meno vicini alla realtà. Il Gen. Riccò l’ha vissuta sulla propria pelle e su quella dei suoi Uomini. Chissà se tra qualche anno sarà autorizzato a rivelare quanto non ha potuto raccontare benché tra le righe traspaiano errori nella catena di comando che non si possono palesare. I “rapporti ufficiali” sono sepolti in polverosi archivi. Al checkpoint Pasta vi fu la prima battaglia combattuta dopo la Seconda Guerra Mondiale da soldati italiani. Non fu una missione umanitaria ma una guerra vera.
Il volume contiene un’analisi politica, estesa anche ai decenni precedenti, puntuale e realistica che non nasconde retroscena ed influenze ad ogni livello: dal tribale, al nazionale, all’internazionale condite in salsa diplomatica.
Con cura ci illustra la durissima preparazione (pienamente riuscita) della XV Compagnia “Diavoli Neri”, tesa a trasformare gli “individui” in un “gruppo compatto ed affiatato”.
All’arrivo a Mogadiscio l’allora Capitano Riccò percepisce, per prima cosa, il pregnante “odore sabbioso di fame, di morte e di guerra”. Il peggio era in agguato: condizioni più che disagiate (oltre ogni immaginazione anche per chi proveniva da un solidissimo addestramento), disorganizzazione, piani di contingenza pasticciati, numero di mezzi non corrispondente a quanto sulla carta (pressoché inutilizzabili per incuria e mancanza di manutenzione). Si rende presto conto che il valore della vita per la popolazione locale rasenta lo zero per cui ognuno vive e combatte come se fosse il suo ultimo giorno. Occorre affrontare i problemi operativi di una difficilissima operazione umanitaria tra lotte tribali e “Signori della Guerra” che non conoscono regole, tantomeno quelle di “ingaggio”. Appronta un valido dispositivo difensivo riarticolando quanto ereditato.
Dopo il massacro di alcuni Caschi Blu pakistani (5 giugno) gli scontri divengono quasi quotidiani sino a giungere all’Operazione “Canguro 11” del triste 2 luglio. Quanto accadde, anche con la sottovalutazione da parte dei Comandi di informazioni “d’ambiente” del Capitano riconducibili ad attendibili fonti locali, lo lasciamo al lettore. Nelle parole vi è tutto il dramma e la rabbia dei “Diavoli Neri” e del loro Comandante. Solo leggendo si può capire, ogni commento sarebbe incapace di renderle in modo adeguato. I Diavoli Neri quel giorno compirono atti di eroismo estremo, si trasformarono in impavidi guerrieri mettendo a frutto il durissimo addestramento. Si fusero nel coraggio e nell’audacia trasformandosi da commilitoni in fratelli.
La verità è stata insabbiata, riconducendo la battaglia a semplice scaramuccia. Varie sono state le interpretazioni circa le motivazioni di quel feroce attacco ma non vi fu certo una sola motivazione.
Dopo quel 2 luglio regna la confusione e le “trattative” (diplomatico/militari) con i “Capi locali” ed i “Signori della Guerra” vengono portate avanti tenendo all’oscuro chi aveva visto la morte con gli occhi (il Capitano che con i suoi paracadutisti aveva combattuto la battaglia). Presto i Diavoli Neri vengono reimpiegati, perché ritenuti i soli idonei all’arduo incarico, e lasciati soli per giorni al checkpoint Pasta senza rifornimenti adeguati.
Il Capitano dei Diavoli Neri è il solo interlocutore accettato dagli anziani del luogo per la stima, la fiducia, il coraggio acquisiti sul campo e l’unico “garante” riconosciuto per gli impegni italiani sugli approvvigionamenti di viveri ed altro.
Come afferma alla fine del saggio, nessuno ha voluto approfondire. Il Generale ha taciuto per quasi tre decenni anche per difendere “l’onore dell’Esercito” perché dire tutto “avrebbe rivelato errori ed ignavia di molti”. Gli eroi della battaglia divennero degli “indesiderati”. Solo i Diavoli Neri sanno, ricordano, possono capire e raccontare cosa accadde quel maledetto 2 luglio 1993.
Lo scritto è talmente avvincente e coinvolgente che si corre il rischio di leggerlo tutto d’un fiato. Chi non ha mai saputo la verità o non è avvezzo a certe realtà potrebbe versare qualche giusta lacrima per gli eroi.
Il Gen. D. Paolo Riccò, nato nel 1963, è un militare di terza generazione. Dopo l’Accademia di Modena e la Scuola di Applicazione fu assegnato ai Fanti Meccanizzati ma ben presto, nel 1991, passò nei Paracadutisti. Giunto a Siena venne inquadrato nel V Btg “El Alamein” dapprima quale Comandante della Compagnia “Peste” e poi della XV “Diavoli Neri”. Al comando dei “Diavoli Neri” ha partecipato in Somalia all’operazione IBIS. Conseguito il brevetto di pilota di elicotteri dell’AVES, assegnato a varie sedi, ha partecipato alle operazioni ALBA (Albania), SFOR (Bosnia), KFOR (Kosovo), ISAF (Afganistan 2003 e 2008); nel 2008 quale Comandate della “Italian Aviation Battalion”. Per quattro anni ed otto mesi ha comandato la Brigata AVES e dell’Aviazione dell’Esercito per poi assumere altri incarichi nella capitale ed all’estero. Laureato in Scienze Politiche ed in Scienze Strategiche, numerose sono le sue decorazioni. Tra di esse si sottolineano: Medaglia di Bronzo al Valor Militare, Croce d’oro al Merito dell’Esercito, Medaglia dell’Aeronautica per lunga navigazione aerea, Medaglia dell’ONU per la partecipazione alle operazioni in Somalia, quattro Medaglie NATO per le operazioni nella ex Jugoslavia, in Bosnia, in Kosovo, in Afganistan e la Army Commendation Medal dell’Esercito USA.