Sul sito istituzionale del carcere minorile di Milano “Cesare Beccaria” si legge una onesta e sintetica presentazione del medesimo che definisce l’istituto “storicamente uno degli Istituti Penali Minorili più importanti d’Italia. Grazie all’impegno (anche in termini di risorse economiche) delle istituzioni pubbliche e private milanesi, l’Istituto divenne presto uno dei “modelli da seguire” della giustizia minorile italiana. Oggi la situazione, sotto molti punti vista, rimane piuttosto lontana dai “fasti” del passato…”. Il complesso degli edifici negli ultimi venti anni ha subito lavori di ristrutturazione indispensabili per adeguarlo alle normali esigenze funzionali, il perdurare dei lavori ha negativamente condizionato la vita degli ospiti e del personale ivi in servizio. La situazione, già definita molto critica, è stata inoltre enfatizzata negativamente dalla circostanza della perdurante mancata assegnazione di un direttore. Tuttavia, l’istituto di pena conta anche con chi si occupa del conforto religioso, spero non solo cattolico, in particolare un sacerdote molto conosciuto per buona fama come Don Gino Rigoldi.
Dai resoconti forniti dagli organi di stampa a far data dallo scorso mese di aprile appare evidente come le inchieste sugli abusi e i maltrattamenti nel carcere minorile Beccaria di Milano abbiano generato una forte impressione nell’opinione pubblica, presto scemata. Superato il primo impatto mediatico, sorprende che nessuno si sia chiesto che fine hanno fatto i ragazzi, oggi adulti, passati dal Beccaria e che fine faranno quelli che ancora oggi vi sono ospitati. Se negli ultimi anni notizie di storie simili che hanno riguardato gli istituti penitenziari per adulti sono salite agli orrori della cronaca, è invece più raro che vengano riportati casi di violenze di ogni tipo e torture che riguardino minorenni, anche se il tema recentemente sembra più interessante nella versione fiction tv che nella realtà. Le indagini svolte nel Beccaria con ausilio di tecnologie digitali che consegnano alla storia immagini inequivocabili, hanno portato all’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria accusati a vario titolo delle violenze, e alla sospensione di altri 8. Le discussioni si sono molto concentrate sul loro ruolo, piuttosto che sulle legittime aspettative dei ragazzi ivi detenuti, molti dei quali sono in stato detentivo preventivo e non hanno ancora subito un processo. Ricordo che tra gli ospiti, quasi la metà sono minori stranieri non accompagnati: per intenderci minori giunti con i barconi o nascosti nei TIR provenienti dai Balcani, le cui famiglie hanno pagato somme ingenti nella speranza che i figli sopravvivessero al viaggio (sappiamo bene tutti quali sono le percentuali di sopravvivenza) oltre che ai trafficanti di esseri umani, per raggiungere l’Europa (l’Italia spesso è solo un transito) ove costruirsi un futuro.
La spiegazione di una presenza importante di detenuti in attesa di processo sarebbe riconducibile in parte alla scarsità di alloggi delle case-famiglia alternative al carcere ed pure ai primi effetti del decreto “Caivano”: il decreto “Caivano” approvato l’anno scorso dal governo Meloni per riformare alcuni aspetti della giustizia minorile italiana, modifica sostanzialmente l’istituto della custodia cautelare. La custodia cautelare prima poteva essere decisa solo per reati che prevedessero pene di almeno 9 anni, ora gli anni necessari sono stati ridotti a 6; inoltre il decreto ha aumentato le pene edittali per diversi reati compiuti da minori e ampliato la lista di reati per cui è possibile l’arresto in flagranza (è possibile, per esempio, anche per lo spaccio di stupefacenti di lieve entità). Quindi oggi è certamente più facile che un minorenne finisca in carcere, e d’altra parte era un obiettivo che il governo voleva ottenere con questa misura, togliendoli così dalle piazze di spaccio e dalle situazioni di alto degrado sociale. Appare evidente che oltre al decreto avrebbero dovuto riorganizzare il sistema carcerario, altrimenti abbiamo solo traferito il problema da un luogo all’altro e con peggiori conseguenze.
Al momento nel carcere minorile Beccaria, che è solo maschile, sono detenuti 82 ragazzi, a fronte di 70 posti disponibili (e parliamo solo di spazi fisici e non di idonee condizioni carcerarie). Solo 11 dei ragazzi detenuti sono stati condannati e stanno scontando una pena definitiva.
Le indagini nel Beccaria sono andate avanti per mesi, ed hanno documentato con riprese audio e video lo scempio della dignità umana al quale sono stati sottoposti i minorenni anche tra loro stessi. In questi anni, perché di anni si tratta, pochi genitori con immaginabili difficoltà hanno denunciato prima alla Direzione del Beccaria, poi alla magistratura le condizioni inaccettabili di vita all’interno dell’Istituto di pena. In loro aiuto sono arrivati, da ultimo, l’attuale direttore del Carcere e la nuova Comandante della Polizia penitenzia del Beccaria (che purtroppo sarà destinata a breve ad altro incarico), il garante dei detenuti per il Comune di Milano insieme ad una dottoressa ed una psicologa che lavorano all’interno del carcere minorile. Tutti, seppure in modo diverso, hanno contribuito con la propria testimonianza a far aprire una vera e propria inchiesta.
Mi chiedo di quei ragazzi, molti di loro minori stranieri non accompagnati, chi se ne poteva o doveva occupare per denunciare questa situazione aberrante. Il povero Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nonno di Alessandro Manzoni, si starà rivoltando nella tomba, giacché fu proprio lui con il famoso “Dei delitti e delle pene” pubblicato anonimo nel 1764 ad illuminarci con una concezione rivoluzionaria delle pene, sull’inutilità delle torture e della stessa pena di morte.
È singolare che anche il mite Don Rigoldi, che pure ha vissuto per decenni il suo ruolo come una missione, non abbia mai compreso quanto stava accadendo all’interno del carcere e qui non vi è segreto confessionale che tenga: sembrerebbe che Cristo, sceso dalla croce, si sia voltato dall’altra parte.