Nel 2010, il regista Luigi Lucchetti ha lanciato il film “La nostra vita”, in cui racconta la storia di Claudio, un giovane capocantiere edile, rimasto vedovo con tre figli piccoli, che lavora e vive nella periferia romana. Un giorno, si accorge che un operaio rumeno, senza contratto, è precipitato da un edificio in costruzione di cui lui era responsabile. Per evitare problemi al costruttore, accetta di far “cementare” il corpo nelle fondamenta, condividendo così un terribile segreto. Lucchetti raccontava una storia che, purtroppo, è tutt’altro che nuova e che probabilmente si è ripetuta molte volte in tutta Italia. Il cinema, quando non si tratta di fantascienza, raramente anticipa la realtà; di solito, la racconta a distanza di tempo dai fatti di cronaca.
Il tragico epilogo dell’operaio indiano a Latina, che ora scuote le coscienze di molti, non inizia a Latina. Inizia in India, dove qualcuno lo recluta, qualcuno che ha gli agganci giusti perché è da Latina o dall’Italia che parte la richiesta di manodopera a basso costo, anzi invisibile. Il futuro schiavo si indebita, perché il reclutatore gli paga il viaggio e gli sequestra i documenti di identità. Così entra legalmente in Italia, ma poi i documenti diventano carta straccia, il passaporto è sequestrato dal “Caporale” e lui resta schiavo per tutta la vita.
Fare l’operaio edile, l’agricoltore o l’addetto alle vaccherie, cambia poco in queste storie, che però hanno tutte un comune denominatore: l’imprenditore italiano, che poi si circonderà di stranieri quali facilitatori e mediatori culturali, svolgendo uno dei ruoli più biechi in queste storie di vero e proprio schiavismo.
Tra i tanti diritti negati, c’è anche quello al censo: tutti i lavoratori in nero scompaiono dai radar degli addetti ai controlli dell’immigrazione, del lavoro, della salute, dell’anagrafe. Diventano una res nullius, che chiunque può permettersi di affondare nel cemento, di abbandonare a pezzi sull’uscio di una baracca, di raggirare nei modi più abbietti con la complicità di farabutti stranieri che lucrano sulla disperazione, sulla fame e soprattutto sull’ignoranza.
Qual è il primo commento del nostro Presidente del Consiglio? Pietà, penserete, per l’ultima vittima nota. Invece no, e cito testualmente: “Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano e mi auguro che questa barbarie venga duramente punita.”
Appartengono eccome al popolo italiano, e appartengono da lungo tempo, con qualsivoglia governo. Augurarsi che siano puniti gli autori di tanta barbarie è una speranza che possiamo esprimere noi, non chi è a capo dell’esecutivo. Del resto, il padre dell’imprenditore agricolo che si è macchiato di omicidio è a sua volta indagato da oltre cinque anni per caporalato. Oltre cinque anni!
Dunque, i politici eletti nei collegi elettorali a più alto tasso di impiego di manodopera illegale e di fenomeni conclamati di caporalato, a chi si sono rivolti per rilanciare un’idea di Paese più giusto e progressista? Non sapevano in che casa erano capitati?
Basta seguire con attenzione l’impulso di governo del Ministero del Lavoro affidato alla Calderone per capire quali speranze abbiamo per il futuro o, meglio, cosa possiamo augurarci. La cosa più triste, disarmante e forse anche ridicola è che i cervelli al comando di questo malconcio Paese continuano a dirci che stanno per assumere ispettori del lavoro ecc. Non ne assumeranno: non assumeranno personale nella Guardia di Finanza, nell’Agenzia delle Entrate, all’INAIL o al Ministero della Salute. Darebbero fastidio a “chi lavora”.
Ora, questa storia è un pixel, uno delle migliaia che compongono l’immagine del made in Italy. Questa è la nostra vita.