Sono trascorsi 80 anni da quel tragico 3 marzo 1944 quando a Balvano, paese in provincia di Potenza, si verificò il più grave disastro ferroviario della nostra storia patria. Fu una tragedia da porre in correlazione con il periodo bellico e le particolari condizioni in cui versava l’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Persero la vita oltre cinquecento persone che erano a bordo del treno merci 8017. Naturalmente il treno non avrebbe dovuto trasportare passeggeri ma merci. La sciagura avvenne tra le stazioni di Balvano-Ricigliano e Bella-Muro. Tutt’ora tali stazioni sono operanti sulla linea Battipaglia-Potenza-Taranto; il lungo tratto era, ed è, a binario unico.
Giunto alla stazione di Balvano-Ricigliano a mezzanotte, il treno 8017 ripartì alle cinque del mattino del 3 marzo affrontando un tratto con forte pendenza e numerose gallerie. Nella “galleria delle armi”, lunga circa due chilometri, con una pendenza media del 12,8%, avvenne il tragico evento. A seguito di movimenti imprudenti e dello slittamento delle ruote, il treno si fermò ad 800 metri dall’ingresso e nessuno ne uscì vivo.
Le persone morirono lentamente all’interno della citata galleria che era, ed è, tra le due stazioni ferroviarie; furono avvelenate dalle esalazioni di monossido di carbonio prodotte dalle due locomotive a vapore che trainavano il treno. Se il bilancio delle vittime fu così grave le motivazioni vanno ricercate nel grave ritardo nei tempi dei soccorsi che scattarono ben cinque ore dopo.
Per la più grave tragedia ferroviaria italiana, gli ottanta anni trascorsi non avrebbero dovuto gettare nell’oblio il disastro se non fosse che il terribile evento è stato offuscato a livello sia mediatico, sia storiografico. Per lo più è ristretto al doloroso ricordo delle popolazioni locali, poi colpite in misura drammatica dal terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980. Ricordo che si affievolisce sempre di più.
L’infausto evento di Balvano rispecchia quelle che erano le incerte e problematiche condizioni dell’Italia, ancora teatro bellico nei primi mesi del 1944; nel Meridione aveva sede del Regno del Sud, dove erano riparati Re Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio con un seguito ristretto della Real Casa.
Cosa accadeva in quegli incerti mesi? Le forze alleate erano sbarcate a Salerno il 9 settembre 1943 e ad Anzio il 22 gennaio 1944. Tra il 27 ed il 30 settembre 1943 un’insurrezione popolare, supportata da truppe fedeli al Re, aveva liberato la città di Napoli dall’esercito tedesco, la Wehrmacht.
Uomini, donne, anziani e bambini letteralmente assaltavano ogni mezzo di trasporto in grado di dirigersi verso la Basilicata o la Puglia. Erano spinti dalla fame che solo chi ha vissuto gli anni della guerra conosce. Il resto è appetito o gola. Per sfamarsi si barattava qualsiasi oggetto, anche di misero valore, pur di trovare qualcosa da mettere sotto i denti.
Se gli scontri bellici erano terminati, la mancanza di cibo era più che evidente. Si moriva di fame, non solo per bombe o pallottole. Gli Alleati abbisognavano, per i loro movimenti, di linee ferroviarie e stradali. La linea Battipaglia-Potenza-Metaponto era la sola utilizzabile per collegare il Tirreno allo Ionio ed all’Adriatico.
La priorità lasciata al trasporto ferroviario militare quasi azzerò il trasporto civile per cui si utilizzarono i treni merci che, comunque, chiedevano il pagamento di un biglietto; non chiamiamolo titolo di viaggio. Vi erano seri problemi anche di ordine pubblico per i ripetuti assalti ai pochissimi treni merci viaggianti.
Quando si ebbe la notizia del doloroso evento si avviarono rapidamente le comunicazioni di servizio anglo-americane ma, non appena vi fu una certa circolazione dell’evento, si attivò la censura militare. Le ragioni degli Alleati prevalsero sulla tragicità del disastro, fatto che ha poi condizionato ed offuscato la memoria storica, eccezion fatta, per le popolazioni locali.
Interessi strategici e geopolitici, in quella fase decisiva del conflitto, non permettevano che si potesse dare la doverosa attenzione ad un disastro di misura epocale. In generale vi era una limitata circolazione delle notizie, subordinata alle esigenze belliche.
In merito alla tragedia di Balvano vi furono due posizioni da parte degli anglo-americani.
Una prima propendeva per restringere la circolazione della notizia per motivi di immagine, di ordine pubblico e per evitare il sorgere di elementi di sfiducia verso gli Alleati. La seconda proponeva di dare adeguata pubblicità al disastro al fine di scoraggiare la popolazione ad assaltare i pochi convogli ferroviari disponibili.
Le valutazioni dei Comandi si indirizzarono verso la via censoria. Solo nella Repubblica di Salò si dette ampio risalto al fine di rimarcare come nel Meridione savoiardo il popolo era costretto ad assalire i treni per fame. La stampa fornì resoconti tardivi, poco accurati e modesti.
Rimane il dilemma di come, terminato il conflitto, la perdita di oltre 500 vite umane sia caduta nel quasi completo oblio. Con ogni probabilità, le Istituzioni, italiane e non, vollero continuare da una parte l’opera censoria e dall’altra mescolare la grande tragedia tra le molte del periodo bellico.
L’unica versione ufficiale non rende giustizia alle vittime poiché parla di carbone di pessima qualità, di “viaggiatori di frodo”, contrabbandieri ed altro. Perirono donne, uomini, anziani e bambini di ogni ceto sociale; le loro morti vennero, e sono, pressoché ignorate. Tutti furono vittime della fame di guerra.
Le frettolose indagini penali vennero archiviate, nonostante gli accertamenti istruttori. Un insieme di comportamenti poco onorevoli che resero la strage di Balvano un triste episodio con tanti colpevoli e nessun responsabile.
La verità incontestabile risiede solo nei 500 deceduti per le esalazioni del monossido di carbonio che per ore fu respirato dalle affamate vittime.