Nel febbraio del 1883, lo scrittore e giornalista Carlo Lorenzini (Firenze 24 novembre 1826 – Firenze 26 ottobre 1890), sotto lo pseudonimo di Carlo Collodi, pubblica, con la casa editrice fiorentina Felice Paggi, il romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino.
Il racconto – ambientato in Toscana ai tempi del Granducato o subito dopo l’Unità d’Italia (com’è dato presumere dai cenni ai Reali Carabinieri Toscani e alle monete dell’epoca) – ha come protagonista Pinocchio: una marionetta umanizzata (corpo di legno e articolazioni mosse da fili) intagliata da un vecchio “pezzo di legno” da Mastro Geppetto, un falegname onesto e laborioso ma così povero da avere il fuoco dipinto nel camino.
Collodi narra le disavventure di Pinocchio in un mondo crudele con chi non ascolta i consigli del Grillo Parlante. Geppetto tratta Pinocchio come il figlio da sempre desiderato, per lui si priva di tutto il niente che ha; vende la logora giacca per comprargli un sillabario e finisce pure in prigione.
Ma la marionetta è insensibile alle sue attenzioni e casca e ricasca con rara facilità in situazioni sempre più pericolose, facendosi, ora, imbrogliare dal Gatto e dalla Volpe, che gli promettono facili ricchezze, ora, traviare da Lucignolo, l’amico scansafatiche che lo conduce nel Paese dei Balocchi, dove i bambini possono giocare liberamente da mattina a sera senza l’assillo di genitori e maestri.
Ogni volta Pinocchio non fa tesoro delle esperienze negative e, perciò, finisce col ripetere gli stessi errori, mentendo agli altri e a se stesso: mente a Geppetto, ai Gendarmi, al Giudice e persino, per tre volte, alla Fata dai capelli turchini. A ogni bugia, il suo naso si allunga sempre più.
Le avventure di Pinocchio, da sempre considerate una favola per ragazzi, rappresentano un’allegoria della società moderna, descritta con crudele realismo nonostante Collodi utilizzi elementi magici e fantastici, esaltati nel film d’animazione prodotto dalla Disney nel 1940.
Nel racconto, la società è intrisa di sopraffazione, perfidia, violenza, indifferenza, che muovono alcuni personaggi pronti a sfruttare ogni debolezza altrui. Le stesse autorità, rappresentate da Collodi dai Gendarmi e un Giudice, imprigionano gli innocenti anziché i delinquenti.
Tra burattinai, briganti, pescecani, serpenti, asini, zecchini d’oro e la Grande Quercia (quella descritta da Collodi esiste ancora in provincia di Lucca, nei pressi di Gragnano; ora è chiamata la Quercia delle Streghe), la storia prosegue finché Pinocchio, dopo aver finalmente compreso gli errori commessi, diventa un bambino in carne e ossa, “un ragazzino perbene”, come si autodefinisce, educato e studioso.
Tralasciando le diverse interpretazioni succedutesi nel tempo, questo capolavoro letterario rappresenta la metafora della condizione umana e del suo male interiore: spesso l’uomo disobbedisce al suo bene, optando per l’alternativa peggiore.
Col tempo ha la fortuna di rinsavire. E impara a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e a riconoscere l’importanza della scuola e dell’istruzione.
Ed è proprio l’istruzione alla base della proposta di riforma della disciplina per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte di stranieri che vivono nel nostro Paese. Si tratta di una riforma basata sul criterio dello ius scholae che subordina l’acquisizione della cittadinanza al compimento di un intero ciclo di studi per i bambini nati o arrivati in Italia entro i 12 anni di età.
Questa non è la sede per affrontare nel merito la questione né confrontare tale criterio all’altra proposta inerente allo ius soli (si acquista la cittadinanza per il solo fatto di nascere sul suolo italiano).
Sta di fatto che attualmente si ottiene la cittadinanza principalmente in base allo ius sanguinis, cioè se si nasce da cittadini italiani o se da essi si viene adottati.
Tale criterio esclude tante ragazze e tanti ragazzi che sono nati e cresciuti in Italia o che comunque vivono qui da anni, parlano italiano, si sentono italiani a tutti gli effetti, ma non hanno i nostri stessi diritti perché il nostro ordinamento giuridico li considera «stranieri».
Bene fa il legislatore a vedere nella formazione scolastica un potente fattore di integrazione mediante la conoscenza dei principi fondamentali su cui si regge la nostra comunità nazionale.
Peccato che lo ius scholae non abbia mai sfiorato coloro che si candidano a ricoprire cariche pubbliche.
In tal caso, avremmo una classe politica più colta ed eviteremmo di assistere giornalmente a quel Gran Teatro dei Burattini che è divenuta la politica nazionale e il nostro non sarebbe più il Paese dei Balocchi.