Il 17 gennaio 1904, presso il Teatro d’Arte di Mosca, andò in scena, per la prima volta, la commedia Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov (Russia 1860 – Germania 1904). A dirigerla fu Kostantin Sergeevič Stanislavskij (Mosca 1863 – 1938), l’ideatore dell’omonimo metodo di recitazione teatrale secondo cui le emozioni del personaggio, prima di essere interpretate, vengono intimamente rielaborate dall’attore.
Fu l’ultimo lavoro teatrale del geniale scrittore e drammaturgo russo che solo sei mesi dopo morì di tubercolosi. La commedia, per alcuni una farsa, per altri una tragedia, fu ispirata da alcune esperienze familiari di Čechov: la madre finì in un mare di debiti ad opera dei costruttori che avrebbero dovuto realizzare una nuova abitazione.
La storia si svolge nella tenuta dell’aristocratica Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, detta Ljuba (nella prima rappresentazione teatrale fu interpretata dalla moglie di Čechov, Olga Knipper) che, dopo cinque anni trascorsi a Parigi, ritorna in Russia dove apprende che la sua tenuta – che comprende una grande coltivazione di amareni divenuti stupendi ciliegi nella traduzione dal russo – dovrà essere messa all’asta per soddisfare i tanti debiti accumulati.
Čechov pone sullo sfondo del racconto i cambiamenti sociali che hanno portato all’emancipazione dei servi della gleba, attuata da Alessandro II nel febbraio del 1861: provvedimento che li fece risalire nella scala sociale a discapito dell’aristocrazia, caduta in un progressivo impoverimento in quanto incapace di gestire le rispettive proprietà senza la manodopera gratuita della servitù.
Nel corso dei quattro atti dell’opera, si alternano le soluzioni per conservare la proprietà della famiglia Ranevskaja: trasformare il giardino in villette da affittare ai villeggianti d’estate oppure far sposare Varja, figlia adottiva di Ljuba, con Ermolaj Alekseevič Lopachin, ricco mercante e amico di famiglia. Alla fine è proprio Lopachin ad acquistare all’asta la tenuta, affare di cui è orgoglioso, in quanto in quella stessa proprietà suo padre ha fatto parte della servitù.
La famiglia Ranevskaja è costretta a lasciare quel giardino simbolo di un vecchio mondo andato, mentre già si odono i colpi d’ascia abbattersi sui ciliegi.
Il giardino dei ciliegi è ormai divenuto un classico della letteratura drammatica: con la futilità dei suoi personaggi Čechov ha saputo rappresentare, da un lato, l’incapacità dell’aristocrazia nel trovare soluzioni al suo naturale declino, dall’altro, l’opportunismo della borghesia nell’appropriarsi di un ruolo centrale nelle dinamiche socio-economiche del lavoro, nella Russia della fine del XIX secolo.
Il giardino dei ciliegi non è solo un dramma: è un’opera ecologista e Čechov è il primo autore ecologista d’Europa: noto è il suo interesse per il giardinaggio che lo portò a piantare personalmente il suo giardino dei ciliegi, abbattuto a sua volta da un nuovo proprietario. Čechov fu uno dei pochi che notò, con dispiacere, gli effetti del disboscamento industriale, al punto da far apparire, a ragione, nelle sue storie gli alberi come eroi e vittime.
Il grande regista teatrale Giorgio Strehler (Barcola 1921 – Lugano 1997), nel rappresentare al Piccolo Teatro di Milano, nella primavera del 1974, Il giardino dei ciliegi, coniugò la personificazione delle emozioni voluta da Stanislavskij col didatticismo del drammaturgo Bertolt Brecht (Augusta 1898 – Berlino Est 1956), realizzando quella che fu definita “una delle più grandi utopie del Novecento”.
Con un cast di eccezione e una esordiente Monica Guerritore, rappresentò magistralmente l’incapacità dell’aristocrazia russa nel trovare soluzioni e nell’affrontare i cambiamenti sociali.
La stessa incapacità che, nel presente, ritroviamo ampiamente diffusa nella classe politica nostrana e comunitaria, la vera, nuova aristocrazia, che – dando giornalmente prova di vivere una commedia, una farsa o, peggio, una tragedia – è sempre più incapace di cogliere i sacrifici e le speranze della gente comune.
Tutto ciò mentre i ciliegi vengono abbattuti.