Il colosso finanziario italiano ha inflitto alla clientela una serie di disagi di origine informatica e lo ha fatto per cinque volte in una trentina di giorni.
I correntisti di Intesa SanPaolo si sono ritrovati nell’impossibilità di dialogare con la banca via Internet e di fruire dei servizi telematici contrattualmente previsti anche se a condizioni (Report docet) diverse da quelle praticate ai parlamentari e altre Very Important Person.
L’istituto di credito ha minimizzato dicendo che solo alcune funzionalità erano bloccate, cose da nulla come il poter verificare l’accredito della pensione o dello stipendio o controllare il mutuo, operazioni ben diverse da quelle che da casa ignoti leoni di Wall Street pongono abitualmente in essere dal salotto o dalla cucina.
Continuando a twittare solenni amenità e comprensibilmente imbarazzato dal non saper cosa dire, il management ha spiegato che le proprie agenzie erano a disposizione per aiutare i clienti a superare il momento di difficoltà. Il personale di sportello si ha idea (forse si sbaglia) debba essere al servizio di chi entra in banca anche quando tutto funziona regolarmente, ma fa piacere che il vertice aziendale abbia voluto sottolineare l’impegno di chi ha dovuto sopportare le rimostranze di “umarell” strappati ai cantieri, massaie inferocite, giovani impiegati alle prese con il far quadrare i conti…
Le tiepide scuse non sembrano bastare e le associazioni dei consumatori, prima tra tutte AssoUtenti, sono doverosamente scese sul piede di guerra a tutela di chi in questo Paese è per default destinato a veder calpestati i propri diritti.
Qualcuno – più attento allo scenario internazionale – suggerisce al Consiglio di Amministrazione di Intesa Sanpaolo di prendere spunto dalla bizzarra iniziativa di Shikoku Bank, istituto di credito giapponese con 150 anni di storia che recentemente ha spiazzato tutti con una insolita dimostrazione di esser pronti a pagare in prima persona gli errori commessi.
Il senso di responsabilità è un po’ l’ingrediente misterioso che dalle nostre parti si rifugge dall’utilizzare nelle più diverse “ricette” quotidiane. Nessuno pretende che l’esempio della Shikoku sia da mutuare in senso letterale, ma certo si è dell’avviso che in Italia – senza arrivare a traguardi assurdi – qualcosa in più lo si potrebbe tranquillamente fare.
Temetevi forte. I dirigenti della banca giapponese – per rassicurare la clientela – hanno giurato di pagare con la vita se ritenuti colpevoli di qualche irregolarità.
23 top manager e tra loro il presidente Miura, hanno firmato un giuramento di sangue che impone loro di suicidarsi se responsabili di violazioni finanziarie, appropriazione indebita o altre attività fraudolente.
La dinamica individuata dalla Shikoku è quella del “seppuku”, un suicidio rituale che permetteva ai samurai di mantenere il proprio onore dopo aver deluso il loro signore.
Qui da noi ci troviamo dinanzi a peccati veniali e forse potrebbe bastare una austera lettera di dimissioni irrevocabili, ma l’annuncio pubblicato sul portale web di Shikoku Bank deve far riflettere per capire se chi sbaglia paga poi davvero per le sue colpe.