“La nostra condizione terrestre è un pellegrinaggio” era scritto nella “Piccola Guida di Roma per i pellegrini del venticinquesimo Giubileo” del 1950, che li ammoniva a ricordare di essere nella città santa e a non dimenticare i poveri, gli infermi, i diseredati.
Niente sulle indulgenze, richiamo dei Giubilei fin dal primo del 1300, il condono cioè delle pene per i peccati condizionato a particolari pratiche religiose. Successivamente, l’offerta di suppliche cominciò ad essere sostituita da contropartite di altro tipo, versamento di denaro contante, allora, peraltro, considerato sterco del demonio.
Contro l’improprio mercato si ribellò LUTERO e Roma cristiana perse il nord Europa che l’Urbe aveva conquistato. Nei Giubilei più recenti le indulgenze sembrano non aver più l’originario appeal sui pellegrini e nei documenti pontifici appaiono rimodulate se non retrocesse in qualche piega sullo sfondo.
FRANCESCO, per esempio, nella bolla di indizione del Giubileo appena iniziato, ne parla al terz’ultimo paragrafo (su venticinque) come il modo per rimuovere “i residui del peccato”.
BONIFACIO VIII, quando il 22 febbraio 1300, con la bolla Antiquorum habet fida relatio, istituì questo periodico pellegrinaggio universale a Roma, attrasse l’attenzione dei fedeli con la promessa delle indulgenze, dell’indulto che si sarebbe potuto ottenere con la visita alle quattro Basiliche maggiori.
Accorsero, quindi, nella città santa migliaia di pellegrini. Li ricorda DANTE quando, nel canto XVIII dell’Inferno che racconta di ruffiani e seduttori i quali in file parallele vanno in direzioni opposte, descrive la gente: “su per lo ponte che da un lato tutti hanno la fronte verso ‘l Castello e vanno a santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ‘l monte”.
Insomma, il giubileo di Bonifacio fu subito un grande successo. Per la religione, certo, ma anche per le casse del sovrano pontefice e della città, grazie alle offerte ed ai commerci, agli alloggi a pagamento, ad ogni altro affare lecito o no che l’improvvisa accresciuta domanda generava.
Tanto che l’intervallo tra un giubileo e l’altro stabilito da Bonifacio in cento anni fu ridotto a venticinque dai successori, alcuni dei quali istituirono in aggiunta a quelli venticinquennali Giubilei straordinari per celebrare particolari ricorrenze.
Inevitabile, quindi, che tali eventi siano potuti apparire manifestazioni di potenza della Chiesa e addirittura “carnevali simoniaci”, come ha scritto Piergiorgio Odifreddi. Sebbene nell’anno santo venissero vietate le manifestazioni carnevalesche, con scorno di chi “campandoci” finiva col maledirlo come “un’invenzion der diavolo, un fraggello”.
Così GIOACCHINO BELLI, il quale si consolava, però, con i vantaggi indulgenziali che lo facevano, invece, giubilare: “Alegramente. Beato in tutto st’anno chi ha peccati, chè a la cuscenza nun je resta un gneo. Tu và a le sette chiese sorfeggianno, mettete in testa un po’ de ceneraccio e tienghi er paradiso ar tu commanno”.
Il poeta, instabile impiegato pontificio “soverchiamente preoccupato di questioni economiche”, come lo descrive la Treccani, ne ha anche per certi risvolti finanziari, alludendo alla “gran raggione “ che indusse Gregorio XVI a proclamare il giubileo del 1832: convertire, cioè, il banchiere Rotschild: “l’abbreo Roncilli, quer zu amico che je venne un mijjaro pe un mijjone”, l’esoso prestito ad altissimo interesse, perdipiù trattenuto in anticipo, occorrente per le spese militari e di polizia del papa re. Come non ci fossero “qui poc’antri ladri da convertilli”, chiosa alla fine.
Naturale, perciò, che, prima di indire il Giubileo del 1975, l’amletico PAOLO VI abbia avuto non pochi dubbi e li confidò pubblicamente ai fedeli: “Ci siamo domandati se una simile tradizione meriti di essere mantenuta”. Poi decise, ma richiamandosi al predecessore Paolo II che ne aveva per primo fissato la scadenza venticinquennale e indicandone la missione di “rinnovamento e riconciliazione di fronte ai fermenti di infedeltà che minano la Chiesa dall’interno”.
Cosa che fece pensare ad un tentativo del papa di voler nascondere dietro le cerimonie di facciata e l’afflusso dei pellegrini la crisi profonda che a lui imputavano, come ha notato Andrea Tornielli, precisando che Montini considerava l’indulgenza “compresa nel cammino di conversione”.
Un Giubileo che non doveva essere trionfalistico, ma che tale comunque si rivelò. A cominciare dalla apertura della porta santa che fu sì intitolata al “grande perdono” e abbattuta dal papa che sotto un moderno piviale indossava il cilicio, ma la fastosa cerimonia venne trasmessa in mondovisione con la regia, addirittura, di Franco Zeffirelli.
Trionfalismo e manifestazione di potere che però non eguagliarono quelli del 1950, quando PIO XII, parlando ex cathedra, proclamò doversi considerare vera e obbligo di fede l’assunzione al cielo del corpo della Madonna. Dogma da taluni considerato “atto di imperio, non del tutto suffragato dalla tradizione”, come scrive Marco Roncalli nella ponderosa biografia del prozio GIOVANNI XXIII, il quale era “uno dei pochi che non l’aveva chiesta e non perché non ci credesse, ma perché la riteneva inopportuna”.
Al Giubileo di PAOLO VI nel 1975 parteciparono otto milioni e mezzo di fedeli, contro i tre del 1950, ma a questo non poterono rispondere i cattolici d’oltrecortina, quelli dei paesi comunisti, cui Pio XII si rivolse comunque chiamandoli “i grandi assenti”.
Numeri imparagonabili al miliardo e mezzo di telespettatori che assistettero al sofferto oltrepassare la porta santa di GIOVANNI PAOLO II vecchio e malato nel Giubileo del 2000 quando, per la ricorrenza dei venti secoli di storia del cristianesimo, furono organizzati eventi grandiosi e spettacolari, adunate oceaniche come la Giornata della gioventù: due milioni di ragazzi festosi e ed il papa che plaudiva al “chiasso che Roma ha sentito e non dimenticherà mai” e ritmava con le mani il loro canto del Jesus Christ superstar.
Nonostante che, negli intenti, il Giubileo avrebbe dovuto caratterizzarsi per la pubblica richiesta di perdono dei peccati commessi dalla Chiesa in duemila anni. Il doloroso Mea culpa del papa coi cardinali in san Pietro davanti alla Pietà di Michelangelo e quel penitenziale biglietto deposto da GIOVANNI PAOLO II in una fessura del muro del pianto a Gerusalemme per chiedere un perdono particolare agli ebrei
Lo sfondo geopolitico di quel Giubileo, come dei due precedenti, era solcato dalle fiammate più o meno recenti o prossime dei conflitti israelo-palestinesi, nella terra in cui Cristo nacque e predicò la remissione dei peccati, cui i successori di Pietro accompagnarono l’indulgenza, che rimane caratteristica stabile di ogni Anno santo.
E, pensando a quello appena iniziato ed alla perdurante guerra in PALESTINA, vien da dire nihil sub sole novi. O, come, con la lunga esperienza di prefetto dell’ex Archivio segreto vaticano, ha testimoniato monsignor Sergio Pagano a Massimo Franco nel recente libro-intervista Secretum: “Lo storico vede troppe volte ripetersi gli stessi eventi come se lungo i secoli non cambi mai nulla. Si traspongono, ovvero si svolgono sotto altre modalità e forme, ma l’uomo rimane sempre la bestia o il santo che è”.