Lo scorso 1 agosto 2024, su questa testata, venne pubblicata la recensione di un libro di libro di Massimiliano Salce, Il suicidio in uniforme, edizioni Magi.
Il saggio, come può ricordare chi ha avuto la pazienza di leggere la recensione, tratta della delicata e dolorosa materia del suicidio nelle Forze di Polizia e nelle Forze Armate. La specifica area della categoria suicidaria è ancora quella in uniforme (Polizia di Stato, Carabinieri, Carabinieri Forestali, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria, Esercito, Marina, Aeronautica).
Si torna in argomento poiché i suicidi di chi tutela la nostra sicurezza, a tutto tondo, con differenti mansioni, colpisce particolarmente e tocca aspetti della fragilità umana. Sono donne e uomini non avulsi da una realtà competitiva e drammatica, attinente all’essere umano in generale. La psiche non è un aspetto che caratterizza solo alcune categorie professionali ed umane ma fa parte di ogni essere vivente pensante.
Perché tornare su questo argomento? Purtroppo i suicidi in uniforme, come definiti nel titolo del testo citato, continuano. Non di rado le tragiche morti, spesso di giovani, vengono celate sia per rispetto delle volontà familiari, sia per scelta dei Comandi. Questo non consente di fornire freddi dati statistici, dietro ai quali vi sono vite umane.
La scelta suicidaria consegue a drammi interiori; sensi di colpa aleggiano su chi è stato vicino, senza averne alcun sentore, o sottovalutando involontariamente alcuni segnali. Chi rimane, talvolta, è assalito dal tragico dubbio di non essere stato in grado di prevenire ma non tutto è prevedibile o prevenibile.
Parliamo di donne e uomini che hanno superato non facili selezioni, non confinate ai soli aspetti culturali ma anche, e soprattutto, di natura psicoattitudinale. Ci si domanda come può avvenire che personale delle Forze dell’Ordine e delle Forze Armate possa compiere simili gesti. Come il corpo nel tempo, anche la psiche umana muta, si altera, subisce le pressioni esterne. Senza voler essere un inopportuno suggeritore, forse reiterare i controlli psicoattitudinali sia con cadenze periodiche, da far stabilire agli specialisti, sia su segnalazione dei Comandi forse potrebbe lenire questa tragica realtà.
La comunicazione interpersonale, troppo spesso assente, la solitudine alimentata, non di rado, dalle gerarchie sono fattori che probabilmente incidono sul doloroso fenomeno. Gli operatori di polizia, talvolta, hanno vergogna nell’esprimere il disagio per timori di varia natura, non esclusi quelli professionali.
Sofferenze non esternate poiché non tutti hanno la forza interiore di reagire o semplicemente chiedere aiuto sottovalutando le problematiche che possono esplodere drammaticamente all’improvviso, anche per un banale episodio. Sono sempre troppi coloro che non ce l’hanno fatta.
Si sommano gli aspetti familiari a quelli di una scarsa sensibilità delle Amministrazioni che, è bene evidenziarlo, non sono Enti astratti ma persone con responsabilità di comando a vari livelli, compresa la cura del benessere psicofisico del personale. In questi suicidi si possono individuare la solitudine, una forma di protesta per essere stati abbandonati, trattati iniquamente, emarginati, carrierismo, mancanza di socializzazione, scarsità delle relazioni umane, cinismo sfrenato ed altro.
Le personalità umane possono trasformarsi in conseguenza delle criticità che emergono nei luoghi di lavoro; vi possono essere interazioni con crolli psicologici, in particolare in ambienti molto gerarchizzati. Si possono subire, o percepire come tali, vessazioni o disinteresse da parte dei vertici.
L’azione di comando è estremamente complessa perché, oltre ai risultati di servizio, deve curare la parte più difficoltosa: non dimenticare che corpo e mente dell’uomo sono un tutt’uno, qualcosa di non scindibile.
Mai si deve prescindere dai rapporti passato-presente-futuro e tempo-spazio-corpo dell’uomo.